LEZIONI ROMANE E LEZIONI EUROPEE
Intervento di Michele Fabiani in occasione dell'incontro svoltosi a Perugia il 14 gennaio 2011
“Uno spettro si aggira per l’Europa. Atene, Parigi, Londra, Roma: Rivolte!”
L’opera demistificatoria del 14 dicembre.
Eraclito diceva:
“L’uomo stupido ama stupirsi di ogni discorso”.
Questa frase mi fa venire in mente Mentana, che su La7 sbavava dietro i discorsi di Fini come fosse arrivato il redentore. Questa frase mi fa venire in mente Giannini, che su Repubblica dopo il discorso di Bastia Umbra dell’ex fascista che presiede la Camera scrisse “E’ arrivato il 25 aprile”. Tra l’altro confondendo la storia, dato che semmai quello di Fini è stato un “25 luglio”, la data in cui un complotto fra i gerarchi destituisce il dittatore. La stessa Repubblica avrebbe fatto un servizio migliore alla sua parte politica scrivendo che quello di Fini fosse stato appunto un “25 luglio” e auspicando davvero un “25 aprile” democratico…ma che ci vuoi fare? L’uomo stupido ama stupirsi di ogni discorso, è proprio vero.
Nel giro di pochi giorni questo teatrino è andato in frantumi, la crisi di palazzo di Fini ha fatto cilecca mentre una rivolta popolare ha insegnato che la via per liberarci dal cavalierato (questo strano regime) è la via della lotta sociale.
La sommossa del 14 dicembre ha avuto il fausto risultato di aver fatto saltare la duplice speculare dialettica contrapposizione tra due opposte mistificazioni, che da un paio di anni si sono diffuse nella cultura politica italiana, alimentandosi l’una dell’altra:
* Il governo Berlusconi è un governo amato dal Popolo, contro di lui c’è un complotto della sinistra giustizialista invidiosa per i suoi successi politici e personali.
* Il governo Berlusconi è un governo di corrotti, nani e ballerine; i magistrati sono i Salvatori della Patria, gli unici che hanno il coraggio e la forza per resistergli – che Dio benedica le manette!
Da sottolineare come nessuno dei poli di questa duplice mistificazione dica una parola sui problemi del cosiddetto “popolo”, sulla crisi economica, su chi ne è la causa, su come uscirne.
La sommossa del 14 dicembre si inserisce in questa contraddizione, la fa esplodere, ne denuncia il carattere mistificatorio, la supera, se la lascia alle spalle. Quello che è avvenuto a Roma il 14 dicembre è un fatto empirico, storico, che di fatto ci porta già oltre questa mistificazione: il 14 dicembre decine di migliaia di persone hanno fatto vedere a Berlusconi che non è affatto amato il suo governo, che c’è una generazione affamata e infuriata che lo detesta con tutta se stessa; ma, nello stesso istante, che non è la pratica dei tribunali, delle leggi, degli scandali, quella che davvero può rompere gli equilibri politici esistenti, collocandosi nei fatti, nelle azioni, negli slogan radicalmente oltre le paranoie legalitarie di Di Pietro e il moderatismo del PD. La duplice mistificazione è di fatto superata, siamo già oltre, siamo di fronte ad un popolo che non rispetta le leggi di Di Pietro e che non crede più alle promesse di Berlusconi.
Un movimento incompreso.
Il carattere così avanzato, questo sì “futurista”, del 14 dicembre ha avuto come conseguenza diretta la sua generale incomprensibilità.
Ovviamente non poteva essere compreso dal governo, non poteva essere compreso dal padronato, non poteva essere compreso da chi sogna di privatizzare le università, di espellere i sindacati dalla fabbriche, di manipolare le menti con il Grande Fratello. Dal governo non ci si poteva aspettare altro: era ovvio che per il padrone della Mediaset o sei uno spettatore o non sei. Tutto il resto è solo una questione di ordine pubblico, di “interferenze”.
Questo fatto del tutto ovvio porta a delle conseguenze che, viceversa, sono imprevedibili: Cosa accadrà quando le proteste non potranno più essere nascoste dalle TV? Cosa è accaduto, ad esempio proprio il 14 dicembre, nella mente di tanti telespettatori? Cerchiamo di immaginarci nei panni di uno che si informa solo con il TG4. Fino a quando le uniche notizie della mia vita sono le notizie manipolate di Fede è evidente che anche la mia stessa mente saprà essere, con altrettanta facilità, manipolabile. Nel momento che finisco in cassa integrazione, nel momento che vedo la benzina a 1,50 € al litro, nel momento che scoppia una sommossa come quella del 14 dicembre, è evidente che devo invece, per quanto ormai malato e drogato dai media berlusconiani, pormi il problema della differenza fra quanto mi racconta Emilio Fede al telegiornale e quanto davvero avviene intorno a me. A mio avviso la stessa sinistra che da anni piange di fronte al conflitto di interessi di Berlusconi di fatto, con i suoi stessi lamenti, riconosce che vi è stata la trasformazione del suo soggetto sociale di riferimento dalla vecchia classe operaia al telespettatore della TV: se uno prende ogni giorno le frustate a sangue dal padrone non c’è manipolazione mediatica che regga, la schiena continua a fargli male. Ora che la crisi si fa sentire, non basta il monopolio dell’informazione. Anzi proprio quel monopolio rappresenta un problema teorico pesante per il semplice fatto che si è talmente manipolata la realtà in questi anni, che ora che tale realtà è in subbuglio mancano gli strumenti per comprenderla e controllarla.
D’altro canto, il movimento sociale che ha portato al 14 dicembre è stato incompreso anche da coloro che si ritengono all’opposizione del cavalierato. Cosa ha da dire Di Pietro a questo movimento? Cosa ha da dirgli Grillo? Cosa ha da dirgli Travaglio? Cosa hanno da dirgli coloro che hanno come motto “fuori i pregiudicati dalla politica”? Un motto che mette sullo stesso piano gli studenti fermati in piazza il 14 con i mafiosi e i corrotti in parlamento: entrambi secondo il tormentone giustizialista commettono reati, entrambi sono da condannare. E’ evidente che non ci si poteva aspettare comprensione neanche da questa parte della politica istituzionale. Anzi, dalla cosiddetta opposizione sono arrivate analisi paradossalmente ancora più errate che dal governo: il ministro La Russa sicuramente si avvicina più alla realtà dicendo che gli studenti sono tutti delinquenti di quanto non faccia il PD che parla di pochi violenti che hanno rovinato una protesta pacifica: il 14 c’è stata una sommossa di massa, dalle vecchiette con gli ombrelli al “coro di voci bianche” delle quindicenni che cantavano “ladri-ladri” e altri cori contro le banche mentre i più grandi le danneggiavano, non c’erano pochi infiltrati, ma centomila rivoltosi.
Il meccanismo psico-politico è alla fine è simile a quello di chi si informa solo sul TG4: chi legge solo Il Fatto Quotidiano ha una rappresentazione della realtà in cui i giudici sono gli eroi e la legge è la sola discriminante fra il giusto e l’ingiusto. Allo stesso modo chi, come Saviano, ama i magistrati e le forze dell’ordine per la loro lotta contro la mafia, non può capire una generazione che si ribella contro di loro. Per questo devono rappresentare (prima di tutto a se stessi, ma ovviamente poi anche al pubblico che anche loro devono manipolare) una piazza del tutto inventata che somiglia più alle piazze dei girotondi e del “popolo viola” che alle piazze della Grecia, rovinata da pochi infiltrati. Uno dei temi ricorrenti nelle migliaia di lettere di critiche che Saviano stesso ha ammesso di aver ricevuto, sta nel lamentare che nel suo intervento vergognoso non una sola parola di condanna è stata espressa nei confronti della polizia; un tema che si ripete soprattutto nelle lettere più moderate, quelle di chi dice che la violenza è sbagliata ma da entrambi le parti, mentre Saviano non osa nemmeno ipotizzare la polizia possa sbagliare. E’ così viscida questa manipolazione che ha bisogno di inventarsi degli infiltrati inesistenti, tappezzando siti internet e pagine di giornali delle foto di questi infiltrati, facendo invece scoprire dei ragazzini da sbattere al carcere minorile.
Paradossalmente questa incomprensione riguarda anche aree radicali come ad esempio quelle del sindacalismo di base. Ovviamente si tratta di una incomprensione radicalmente opposta a quella che si verifica nell’arco parlamentare. I sindacati di base ovviamente non criticano questo movimento, però non hanno saputo dialogarci, non hanno capito le sue scadenze, non hanno percepito e razionalizzato il fatto che qualcosa covasse sotto la cenere. Perché i COBAS e gli altri sindacati di base non hanno aderito alla manifestazione del 14 dicembre? La risposta che si riceve quando si pone questa domanda è semplice: perché c’era la FIOM, il sindacato dei metalmeccanici della CGIL, e se c’è la CGIL non ci siamo noi.
Eppure in passato gli stessi sindacati di base hanno aderito a manifestazioni con forze molto più moderate. Ad esempio nel 2001 erano al G8 di Genova, con un corteo proprio certamente, ma c’erano. E in quei giorni in piazza non c’era solo la FIOM ma l’intera CGIL, c’erano i DS e altre forze ben peggiori della FIOM. Come mai allora c’erano i sindacati di base e oggi no? La risposta politica, al di là dei tecnicismi, è semplice: i dirigenti dei sindacati di base avevano capito che c’era un movimento forte e determinato che contestava la globalizzazione capitalistica, ne erano parte attiva, e sapevano che il momento di massima contestazione si sarebbe raggiunto proprio a Genova; oggi dobbiamo temere che non sia più così. Eppure il movimento di oggi io lo considero superiore a quello 10 anni fa. In primo luogo da un punto di vista soggettivo, 10 anni fa c’è la crescita economica e la globalizzazione, ci si limitava solo ad auspicare che non avvenisse ai danni del Sud del Mondo, oggi c’è una crisi che ci affama in prima persona.
Un sommovimento internazionale.
Malgrado l’incomprensione che questo movimento ha avuto, esso non è un fatto isolato avvenuto in un giorno isolato in un posto isolato. Dal punto di vista degli studenti, questo movimento è nato 2 anni fa, nell’autunno del 2008, con il cosiddetto movimento dell’Onda. Negli ultimi 4 mesi ha visto manifestazioni più che settimanali con una discreta presenza sin dai primi di ottobre, l’ultima grande manifestazione prima del 14 dicembre c’è stata il 30 novembre e a mio avviso già da lì si capiva che stava avvenendo qualcosa di importante: quando ho visto 50 mila persone che tenendosi a braccetto e facendo i cordoni indietreggiavano tutti uniti resistendo passivamente e senza violenza alle cariche, la prima cosa che mi sono chiesto è stata: cosa succederà se con la stessa unanimità con cui oggi 50 mila persone fanno “cordone” passivamente domani decidessero di avere atteggiamenti più duri? E infatti dopo due settimane c’è stato il 14 dicembre. Dal punto di vista degli operai, la riscossa è un po’ più recente. E’ un percorso che comincia questa estate dopo l’accordo di Pomigliano e la giusta rabbia di molti contro condizioni di lavoro disumane, che vietano lo sciopero, aumentano i ritmi in catena di montaggio, tagliano le pause e le mettono a fine turno, non pagano la malattia. Per fare un esempio, la legislazione inglese che a metà Ottocento ha introdotto le 12 ore lavorative giornaliere prevedeva la pausa a metà giornata, oggi non siamo ancora alle 12 ore di lavoro, ma le pause non sono dopo 6 ore di lavoro ma dopo 7 e mezza! Anzi il nuovo accordo di Mirafiori prevede di lavorare fino a 10 ore, quando il marcato dovesse chiederlo. Questo movimento ha visto una grandiosa manifestazione il 16 ottobre a Roma. E anche a quella manifestazione i sindacati di base non c’erano. Ecco perché poi non hanno capito cosa stesse succedendo. Proprio quel giorno lessi un bel volantino scritto dagli stessi ragazzi che oggi sono nostri ospiti a questo dibattito[1]. In esso c’era scritto: “noi non stiamo con nessun sindacato, siamo qui solo perché siamo degli operai e siamo solidali con gli operai, e qui oggi ci sono degli operai”. Poi ci sono altri percorsi che hanno portato al 14, quello dei terremotati abruzzesi, quello dei vesuviani che si oppongono alle discariche. E’ incredibile che una parte del movimento abbia messo un veto a tutte queste realtà solo perché nella miriade di sigle ci stava anche quella della FIOM.
E’ significativa, a mio avviso, la coerenza e la radicalità di questo movimento. Nessuno degli intervistati che i media disperatamente cercavano ha detto una sola parola di condanna, nessuno ha preso le distanze né fatto passi indietro. E’ significativo, non solo perché di solito in TV avviene il contrario e per essere politicamente corretti gli ospiti devono dire per forza certe cose, ma anche perché è esattamente speculare di quanto invece è avvenuto a livello parlamentare, dove con la stessa unanimità, ma con posizioni opposte, tutti hanno condannato. Anche questo la dice lunga sulla incomunicabilità di questi due mondi.
Tutto questo avviene non per caso, ma all’interno di un contesto di rivolte europee: da due anni la Grecia è in rivolta, anche qui prima partendo solo dai giovani poi estendendosi dopo le misure dello scorso anno anche a tutti i lavoratori che nel solo 2010 hanno fatto ben 7 scioperi generali; la Francia questo autunno è stata bloccata da una protesta totale contro la riforma delle pensioni, che ha visto blocchi alle raffinerie, distributori chiusi, strade e stazioni ferroviarie bloccate, scuole e università occupate; in Inghilterra gli studenti si sono ribellati contro il provvedimento del governo che triplica le tasse universitarie, assaltando il parlamento, la sede dei conservatori, il ministero delle finanze, aggredendo il Principe Carlo in persona; uno sciopero generale molto duro c’è stato anche in Spagna e proteste si sono verificate in Irlanda…
Sinceramente io non mi stupisco di questo sommovimento europeo, anzi mi stupisco semmai che sia ancora troppo poco europeo. Mi stupisco che non ci sia sufficiente consapevolezza che c’è una chiara politica europea di tagli e risparmi che sta strozzando un intero continente, mentre le proteste sono ancora di natura nazionale e si limitano ai provvedimenti dei governi che applicano tali direttive europee. Mi stupisco di incontrare ancora persone, anche vicinissime a me, che mi dicono che bisogna distinguere la protesta contro la Gelmini dalla protesta contro il governo Berlusconi dalle proteste contro le politiche economiche europee: ma come cazzo si fa a non capire che Berlusconi e la Gelimini sono solo l’appendice di un sistema che decide a Bruxelles di tagliare istruzione e sanità per pagare i debiti contratti in borsa dalla borghesia europea? Io in tutto il mio intervento di oggi non la cito nemmeno una volta la riforma Gelmini, qui il problema è europeo e per fermarli serve una rivoluzione europea. Altro che il referendum abrogativo chiesto dal Manifesto, l’ennesima buffonata della sinistra per tentare di incanalare il movimento dentro un percorso istituzionale e legalitario.
Ma la rivolta non è nemmeno solo europea. Quello che sta accadendo in nord-africa, con le rivolte contro l’aumento del prezzo del pane e dell’olio che stanno provocando decine di morti proprio mentre noi parliamo, è un fenomeno che ci parla di disperazione e di fame: non di proteste astratte contro qualche riforma o qualche modello culturale: di fame, di olio e di pane a prezzi inaccessibili.
E’ una realtà con cui dobbiamo fare i conti. Nei prossimi mesi ed anni avremo di fronte proteste diverse alle proteste impegnate dell’Europa benestante degli ultimi anni. Avremo di fronte delle proteste meno motivate culturalmente, ma affamate. Se da un lato questo ci libererà da tanti chiacchieroni, dall’altro ci porrà di fonte al serio problema di fare un’analisi teorica di quello che accade e di fornire a noi stessi e agli altri degli strumenti per intervenire: perché quando la gente ha fame possono emergere anche risposte autoritarie, razziste e reazionarie.
La rivolta è mondiale, ma paradossalmente i “rivoltosi” non lo sanno. E’ mondiale perché tanta e tale è la fame che per forza di cose si sta manifestando uno spirito che porta verso questa direzione: hegelianamente potremmo dire che è lo Spirito della Storia che ci porta verso questi avvenimenti, in termini più contemporanei che c’è una psicologia sociale che si manifesta in questi sommovimenti continentali. Io però non credo né allo Spirito della Storia né all’anima sociale, credo che dobbiamo cominciare a prendere coscienza ed organizzarci a livello quantomeno continentale e mediterraneo.
Il coraggio di fare proposte rivoluzionarie: dalla bancarotta all’autogestione di fabbriche e facoltà.
Di fronte alla durezza di queste proteste emerge la mancanza di proposte serie e davvero rivoluzionarie. O si chiacchiera, come in Europa, o si cerca semplicemente di sfamarsi, come il Algeria e in Tunisia dove la gente assalta i supermercati. Non emerge alcun progetto.
Si sente spesso parlare del reddito per tutti. Ma che significa questa formula? Da dove viene questo reddito? Poniamo, come vuole la cosiddetta sinistra radicale, che questo assegno mensile per tutti venga da un aumento delle tasse per chi specula in borsa. Aumento sacrosanto, ma il giorno che avremmo abolito la borsa?
Senza andare così lontano, pongo un’altra domanda: da dove vengono i soldi con cui gli speculatori investono in borsa, soldi che la sinistra e i negriani vorrebbero tassare per ridistribuire un reddito? Vengono dal sudore degli operai FIAT che Marchionne fa lavorare 10 ore al giorno. Vengono dai ragazzini indiani costretti a cucire scarpe per le multinazionali americane. Vengono dai tunisini e dagli algerini defraudati dal loro petrolio dalle compagnie europee. I padroni prima espropriano, poi ci giocano in borsa. Ammesso che serva, è davvero giusto tassare questo esproprio per dare il reddito ai cittadini italiani? O è solo un modo per diventarne complici? Reddito di cittadinanza, come lo chiamano, diverrebbe semplicemente il diritto, in quanto “ricco” studente italiano, ad avere una percentuale mensile dei soldi che vengono fatti sfruttando il terzo mondo o i nostri padri in fabbrica. Come se il denaro non venisse da qualcosa, ma esplodesse da sé come i giudizi sintetici a priori di Kant o si muovesse dal nulla come lo Spirito di Hegel. Il denaro non viene dal nulla, ma dallo sfruttamento. Infatti, una delle leggi economiche che i fautori di questa magica teoria sostengono essere morta è la cosiddetta legge del valore.
Si possono fare proposte ben più radicali, secondo me. Innanzi tutto bisognerebbe avere come modello a cui mirare il concetto di autogestione. Dall’autogestione delle fabbriche contro padroni carnefici, all’autogestione delle università. Bisogna sfatare questo tabù, nessuno parla ormai più di esproprio: i sindacati dovrebbero cominciare a mettere nelle loro piattaforme di sciopero l’esproprio delle aziende, la loro autogestione.
Stesso discorso vale per le università: mi stupisco che nel progetto della cosiddetta “autoriforma” che una parte degli studenti sta portato avanti con assemblee itineranti, dibattiti online, convegni nelle facoltà, non sia stata avanzata la proposta di seria autogestione e di reale autonomia degli atenei. Un progetto veramente rivoluzionario, anche se influenzato da un’ottica di conquiste graduali, non può non avere come primo punto la tensione verso l’emancipazione da questo stato. Una sempre più vasta parte del movimento (anche fra coloro che ho appena citato per quanto concerne la proposta del reddito per tutti) sta facendo propria l’antica ma sempre attualissima proposta anarchica di distinguere ciò che è comune, ciò che è di tutti, da ciò che è statale. Eppure questo non l’ho trovato tradotto in proposte concrete. Sono d’accordo: né con lo stato né coi privati. Ma con chi? E per fare cosa?
Un punto graduale, ma anche per gli standard del pubblico assuefatto al politicamente corretto assolutamente rivoluzionario, potrebbe essere quello di chiedere uno statuto speciale nelle università. Ad esempio, come era in Grecia fino a pochi mesi fa (ora è stato recentemente modificato con quel pacchetto di leggi evidentemente non solo economiche fatte per superare la crisi), facendo delle università dei territori quasi extra-nazionali, dove la polizia o l’esercito non può entrare e dove ogni decisione è autonoma e libera da parte di chi l’università la vive, ci lavora o ci studia. Ad esempio, in Grecia tale statuto di indipendenza dallo stato era determinato dal fatto che è stata la rivolta delle università ad abbattere il Regime dei Colonnelli. Quindi vi era una sorta di riconoscimento istituzionale al fatto che delle università autonome e autogestite posso diventare dei luoghi di resistenza al potere politico e alle sue derive autoritarie. Ovviamente questo riconoscimento in Italia al contrario va strappato, ma non è un obbiettivo impossibile. Ad esempio, noi potremmo rivendicare un ruolo nel prossimo futuro di aver contribuito ad abbattere il regime del cavalierato.
Un altro obbiettivo, ancora più immediato e graduale, ma per certi aspetti ancora più indicibile, è quello della bancarotta. Di fronte ad una crisi analoga a quella greca, noi dobbiamo rifiutarci di finire nelle grinfie degli strozzini del FMI e dell’UE. Una volta accettati i prestiti europei si abdica ogni autonomia residua, ogni scelta economica è dettata dai tecnocrati di Bruxelles. Molto meglio la bancarotta. Chi ha speculato sui conti italiani aspettandosi un aumento dei tassi di interesse dei bot deve rimanere con un pungo di mosche!
Il problema della banca rotta è un problema non sono economico o politico, ma anche filosofico. Implica che si abbandoni la filosofia della crescita, così come ogni filosofia progressista o in generale progressiva. Anche chi teorizza la decrescita, in realtà teorizza una decrescita progressiva, lineare, “felice”. Bisogna entrare nell’ottica del crollo, del radicale rivolgimento. Anche le rivoluzioni marxiane sono rivoluzioni tutto sommato lineari, il risultato di sviluppi storici lineari. Bisogna cambiare radicalmente prospettiva. Non tutto si può salvare, non tutto si può ridistribuire. Ci sono strumenti che sono forgiati per fare del male, ai fini del potere. Tali strumenti, tali ricchezze, sono inespropiabili. Vanno semplicemente distrutti. Invece l’ottica lineare, progressiva, prevede che tutto venga salvato e che quindi, se oggi viviamo in un’era di ricchezza astratta, cognitiva, anche tale ricchezza vada ridistribuita, magari sotto forma di reddito.
Io penso invece che dobbiamo entrare nella prospettiva del crollo. Della bancarotta.
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