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venerdì 24 giugno 2011

DALL’ ORIGINE DELLA DISUGUAGLIANZA DI ROUSSEAU ALL’ANARCO-PRIMITIVISMO DI ZERZAN

J..J. Rousseau
NATURA E STORIA

di Michele Fabiani 



La natura come entità statica e il mistero della sua negazione

La forza di un mito come quello del cosiddetto peccato originale, con le sue traslitterazioni in epoche e luoghi diversi, indica quanto sia altrettanto forte il problema che con la sua narrazione prova a risolvere: come si spiega l’emergenza della storia come negazione di un essere quasi parmenideo, statico, perfetto, autosufficiente, come solitamente viene inteso il concetto di natura?
La risposta biblica è drammatica: un errore, un peccato, una impertinente volontà di conoscere hanno causato il tragico evento che dalla felicità naturale ha prodotto le peripezie dell’umanità nel corso della storia.

Probabilmente questa antica risposta è ancora oggi la più convincente di tutte, perlomeno se ci si ostina a considerare la natura come un “luogo” ontologicamente altro rispetto a quello in cui tutti noi siamo collocati. Infatti, come è possibile giustificare un tale devastante e trascendente salto ontologico da quella realtà e questa? Quanto meno la religione ha la coerenza di dire che tale evento è prodotto da forze sovrannaturali: perché solo forze sovrannaturali possono portarci fuori dalla natura. Le risposte razionali dei filosofi e degli scienziati – fino a Darwin – invece non possono avere obbiettivamente la stessa forza. Fino a quando si è continuato, e fino a quando si continuarà, a considerare i due “luoghi” sideralmente distanti, nessuna congettura razionale potrà spiegarci quale potenza ha prodotto un tale cambiamento. Solo una potenza sovra-naturale può portarci in un mondo post-naturale.
E’ una difficoltà che ha incontrato anche un acuto pensatore come Rousseau. Certamente Rousseau più che alla problematica ontologica del passaggio dal regno della natura a quello della civiltà si è posto un problema di tipo politico, ma non per questo meno grave. Il problema emerge irrisolto nel Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza. Soprattutto quel testo mi interessa in questa sede, perché mi interessa analizzare la contraddizione posta fra natura e storia, e solo secondariamente la sua eventuale soluzione (se c’è; secondo me si). Va detto che tale soluzione Rousseau cercherà di fornirla nel Contratto sociale, come vedremo più avanti.
Inoltre, sono interessato a fare una comparazione fra il Discorso di Rousseau e le teorie di John Zerzan, massimo ideologo della relativamente recente (per i tempi della filosofia) corrente del movimento anarchico, quella del cosiddetto primitivismo. E’ interessante perché le loro posizioni sono su molti punti sovrapponibili: 1) la negatività e la tragicità della civilizzazione; 2) la sua origine nella proprietà privata e nell’agricoltura; 3) la mancanza di una giustificazione razionale circa l’origine di questa corruzione.
Fra Rousseau e Zerzan ci sono però anche due importanti differenze. (A) Nel Discorso di Rousseau lo stato di natura è introdotto come un’ipotesi di cui non si pretende la reale esistenza, ma semplicemente l’utilità per capire il mondo contemporaneo; viceversa, in Zerzan la società primitiva è storicamente esistita ed è in quello stadio possiamo e dobbiamo cercare di tornare, grazie ad una violenta insurrezione capace di realizzare la più radicale delle rivoluzioni. (B) Mentre l’ipotesi dello stato di natura che troviamo nel Discorso, rappresenta semplicemente un momento, un passaggio, dell’evoluzione del pensiero politico del Ginevrino – processo che si concluderà in una visione del rapporto fra natura e storia molto più dinamica nel Contratto sociale -, al contrario in Zerzan il primitivismo è (secondo lui) il punto definitivo e la conseguenza logica dell’evoluzione del pensiero politico anarchico-ecologista, così come si è sviluppato negli ultimi anni dopo il fallimento dei tentativi rivoluzionari del movimento operaio nel Novecento, in particolare dopo il crollo del mito del progresso industriale che in esso aveva introdotto la corrente marxista. Insomma, Ruosseau ha una concezione ipotetica dello stato di natura, Zerzan ne ha una concezione dogmatica.

Le caratteristiche dello stato di natura nel Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza

Abbiamo detto che il primo Rousseau descrive lo stato di natura come un luogo statico e imperturbabile. Questa solida stabilità è resa possibile da alcuni fattori essenziali; in particolare io ne individuo due, uno esterno e uno costitutivo della natura umana: in primo luogo la natura si presenta come un luogo materno e protettivo, la terra nutre tutti i suoi figli e la solitudine rende impossibile scontri, rancori, oppressione; in secondo luogo, l’uomo primitivo è dotato da una qualità importantissima, la pietà, che gli impedisce di fare del male ai suoi simili, se non per bisogno.
Questi due aspetti sono fondamentali per l’antropologia russoiana, permettendogli di marcare le distanze dalle posizioni di Hobbes e dalla sua visione caotica e di perenne guerra riferita alla natura: al contrario, per Rousseau l’uomo non ha né il bisogno né il piacere nella guerra con gli altri uomini.
Il primo aspetto che abbiamo individuato, Rousseau lo esprime con questi termini:

«Spogliando questo essere così costituito di tutti i dono sovrannaturali che egli abbia potuto ricevere e di tutte le facoltà artificiali che ha potuto acquistare soltanto mediante un lungo progresso, e considerandolo, in una parola, quale è dovuto uscire dalle mani della natura, vede un animale meno forte di alcuni, meno agile di altri, ma tutto sommato, quello organizzato più vantaggiosamente di tutti; lo vedo che si riposa sotto una quercia, si disseta al primo ruscello, trova il suo letto ai piedi dello stesso albero che gli ha fornito il pasto – ecco soddisfatti i suoi bisogni.
La terra lasciata alla sua naturale fertilità e coperta di foreste che la scure non ha mai mutilato offre ad ogni passo delle riserve alimentari e dei giacigli agli animali di ogni specie»[1].

E non solo dal punto di vista alimentare, anche il corpo, «unico strumento che l’uomo selvaggio conosce»[2] è decisamente più robusto del nostro. Infatti «è la nostra industriosità che ci toglie quella forza e quella agilità che la necessità obbliga a lui di acquistare»[3]. Persino la salute ci guadagna. La civiltà per la costituzione umana è stata semplicemente devastante:

«La grandissima disuguaglianza nella maniera di vivere, l’eccessivo ozio degli uni e l’eccessivo lavoro degli altri, la facilità di eccitare e soddisfare i nostri appetiti e la nostra sensualità, i cibi troppo raffinati dei ricchi […], il cattivo nutrimento dei poveri, le veglie, gli eccessi di ogni genere, le esaltazioni smoderate di tutte le passioni, le fatiche e l’esaurimento dell’intelletto […]: ecco le prove funeste che la maggior parte di tutti i mali è opera nostra e che li avremmo evitati quasi tutti conservando la maniera di vivere semplice , uniforme e solitaria che ci era stata prescritta dalla natura»[4].

Insomma, «avendo così poche cause di malattia, l’uomo nello stato di natura non ha, dunque, bisogno di medicine, e meno ancora di medici»[5].
Immaginare l’uomo naturale è un difficile esperimento mentale, esso è ben diverso dall’uomo addomesticato quale noi siamo:

«Guardiamoci dunque dal confondere l’uomo selvaggio con gli uomini che abbiamo sotto gli occhi. La natura tratta gli animali abbandonati alle sue cure con una predilezione che sembra indicare quanto essa sia gelosa di questo diritto»[6].

Il secondo elemento, in questo caso “interno” all’uomo stesso, che permette la stabilità e la felicità in questo Eden, e che soprattutto permette a Rousseau di non cadere nella guerra del tutti contro tutti e quindi nella soluzione e nella giustificazione autoritaria di Hobbes, è costituito dal concetto di pietà.

«Soprattutto non concordo con Hobbes che l’uomo, per il fatto che non ha alcuna idea di bontà, sia naturalmente cattivo, che sia vizioso perché non consce virtù, che neghi sempre ai suoi simili dei servizi che creda non essere loro dovuti, né che in forza del diritto che egli a ragione si attribuisce sulle cose di cui ha bisogno si immagini stoltamente di essere il proprietario di tutto l’universo. […]
Hobbes non ha visto che la causa stessa la quale impedisce ai selvaggi di usare la ragione […] impedisce loro nello stesso tempo di abusare delle loro facoltà […]; perché ciò che impedisce loro di far del male non sono né lo sviluppo dell’intelligenza, né il freno della legge, ma la calma delle passioni e l’ignoranza del vizio: Tanto plus in illis proficit vitiorum ignoratio quam in his cognitio virtutis [Giustino, Historiae, lib. II, cap. II]. D’altra parte c’è un altro principio, che Hobbes non ha affatto visto, e che, essendo stato all’uomo in certe circostanze per addolcire la ferocia del suo amor proprio, o (prima della nascita di questo amor proprio) del suo desiderio di conservazione, tempera l’ardore che ha per il suo benessere con la ripugnanza innata a veder soffrire il proprio simile. Non credo di correre il rischio di cadere in contraddizione accordando all’uomo la sola virtù naturale che anche il detrattore più spinto delle virtù umane è stato costretto a riconoscere all’uomo: voglio dire la pietà»[7].

E’ del tutto evidente, fosse solo per il numero di volte che viene citato, che il concetto di pietà è una risposta all’antropologia di Hobbes e alle sue conseguenze politiche. Un concetto che però Rousseau esalta come elemento essenziale non solo per l’uomo, ma anche per gli altri animali: «un animale non passa senza turbarsi accanto ad un altro animale della sua specie morto», «la ripugnanza dei cavalli a calpestare corpi viventi»[8], ecc.
Sull’importanza del concetto di pietà nell’antropologia del giovane Rousseau ha riflettuto a lungo Reale. Secondo Reale, oltre ad essere una risposta ad Hobbes, la pietà è anche il “ponte” tra l’uomo naturale e l’uomo civilizzato, forse l’unico vero e solido punto di collegamento esistente fra queste due entità separate quasi ontologicamente.

«Il tema della pietà, così dibattuto nella recente letteratura russoiana, risponde a parer nostro a due esigenze fondamentali: quella di segnare una differenza nell’antropologia originaria rispetto ad Hobbes, e quella di stabilire un grado di connessione tra la pura natura e l’uomo civilizzato. Vediamo distintamente le due questioni. Nella Prefatio ad lectores del De Cive Hobbes aveva definito miserabile lo stato di natura e necessaria l’uscita da esso. Da questo luogo comincia la discussione russoiana che oppone anzitutto alla pretesa miseri l’uomo naturale integro, senza sofferenze né privazioni, chiuso interamente nel proprio istinto. Poiché tuttavia l’argomentazione hobbesiana muoveva dal principio della naturale diffidenza tra gli uomini, Rousseau non può limitarsi al puro lato della costituzione soggettiva dell’uomo di natura, né a quello delle condizioni oggettive in cui esso vive, e deve affrontare il tema della relazione reciproca tra gli uomini»[9].  

La civilizzazione e le sue tappe in Rousseau e Zerzan: proprietà privata, agricoltura, industria

Le posizioni del Rousseau ai tempi del Discorso sono incredibilmente simili a quelle di un movimento politico-filosofico contemporaneo come l’anarco-primitivismo.

«Che cosa è il primitivismo?
Anche se non tutta l’anarchia verde s’identifica speficamente come “primitivista”, gran parte riconosce il significato che la critica primitivista ha nelle prospettive anticivilizzazione. Il primitivismo è semplicemente un esame antropologico, intellettuale, delle esperienze e delle origini della civilizzazione e delle circostanze che portarono all’incubo nel quale attualmente viviamo. Il primitivismo riconosce che, per gran parte della storia umana, la nostra vita si svolgeva a faccia a faccia nella comunità, in equilibrio fra noi stesse/i e tra noi e l’ambiente circostante e senza gerarchie ed istituzioni formali per mediare e controllare le nostre vite. Chi è primitivista vuole apprendere delle dinamiche in vigore nel passato e nelle società caccia e raccolta/primitive contemporanee (quelle che vivevano e tuttora vivono all’esterno della civilizzazione). […] Il termine “Futuro Primitivo”, coniato dall’autore anarco-primitivista John Zerzan, indica il fatto che una sintesi delle tecniche e delle idee primitive può essere unita a concetti e motivazioni anarchiche contemporanee per creare delle situazioni salubri, sostenibili, ugualitarie e decentralizzate. Applicato in modo non ideologico, l’anarco-primitivismo può essere un importante strumento nel progetto di decivilizzazione»[10].

Troviamo interessanti analogie su vari campi di indagine: dallo studio delle popolazioni ancora libere dalla civiltà – si pensi alle numerose citazioni russoiane sui popoli selvaggi – fino all’interpretazione di fondo della parola “civiltà” come termine del tutto infausto.
Prendiamo il ruolo della proprietà privata nell’inizio della “catastrofe” della civilizzazione, secondo le parole di Rousseau.

«Il primo che, avendo cintato un terreno, pensò di dire “questo è mio” e trovò delle persone abbastanza stupide da credergli, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quanti assassini, quante miserie ed errori avrebbe risparmiato al genere umano chi, strappando i piuoli o colmando il fossato, avesse gridato ai simili: “Guardatevi dal dare ascolto a questo impostore! Se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno siete perduti!”»[11].

Un ruolo importante in questa progressiva corruzione ambientale e morale lo gioca l’agricoltura. Così Rousseau sull’agricoltura e la metallurgia:

«La metallurgia e l’agricoltura furono le due arti la cui invenzione produsse questa grande rivoluzione. Per il poeta sono l’oro e l’argento, ma per il filosofo sono l’oro e il grano che hanno incivilito gli uomini e perduto il genere umano. Tanto l’uno che l’altro erano sconosciuti ai selvaggi dell’America, che appunto per questo sono rimasti tali […]
Dalla coltivazione delle terre seguì necessariamente la divisione di esse. E dalla proprietà, una volta riconosciuta, le prime regole di giustizia»[12].

Per Rousseau, prima nasce la metallurgia e poi l’agricoltura, poiché «da quando fu necessario avere  uomini per fondere e forgiare il ferro, ci fu bisogno di altri uomini per nutrire quelli», questo portò la divisione del lavoro, il «moltiplicare gli impieghi»[13].
Così Zerzan sulla comparsa dell’agricoltura e del lavoro in generale:

«L’agricoltura, fondamento indispensabile della civilizzazione, fa la sua comparsa originaria una volta emersi tempo, linguaggio, numero e arte. Alienazione che si materializza, l’agricoltura è il trionfo del distacco e della definitiva separazione tra cultura, natura ed esseri umani.
L’agricoltura è la nascita della produzione, nella sua caratteristica essenziale di deformazione della vita e della coscienza. La terra stessa diventa lo strumento di produzione e le specie vivente del pianeta i suoi oggetti. Selvatiche o addomesticate, erbacce o colture esprimono quella dualità che storpia l’anima del nostro essere, introducendo, relativamente in fretta, il dispotismo, la guerra e l’impoverimento della civiltà avanzata su quell’unione con la natura che caratterizzò l’era precedente. La marcia forzata della civilizzazione, che Adorno riconobbe nella “ipotesi di una catastrofe irrazionale all’inizio della storia”, che Freud considerò come “qualcosa di imposto ad una maggioranza renitente”, in cui Stanley Diamond ritrovò soltanto “coscritti, non volontari”, fu dettata dall’agricoltura»[14].

L’irrazionalità del passaggio dalla natura alla storia

Citando Adorno, Zerzan definisce catastrofe irrazionale l’emergenza della civiltà. In effetti, da questo punto di vista, razionalmente non ci si può spiegare come sia stato possibile il passaggio dalla natura alla storia. Se la natura è così perfetta, perché uscirne per entrare nelle storia fatta di tragedie e miseria? Ancora più astrattamente: come è possibile il passaggio razionale da una realtà ontologica ad un'altra? Cosa può congiungere ciò che è sideralmente distante? Siamo dunque tornati al punto di partenza.
Né Rousseau né Zerzan danno risposta a queste domande. Non basta descrivere le tappe – l’arte, il linguaggio, gli strumenti, gli strumenti in metallo, gli strumenti agricoli, ecc. – per spiegarne le ragioni. Questi sono i percorsi seguiti – secondo Rousseau e Zerzan – dalla storia, ma quale causa prima li ha determinati?
Né Rousseau né Zerzan possono rispondere, perché partono dal presupposto di una discontinuità ontologica fra la natura e la civiltà. La loro posizione è quindi, da un punto di vista ontologico, tutt’altro che materialista, come potrebbe apparire da una lettura superficiale. Ontologicamente il materialismo si fonda sul monismo[15]: l’idea che esista un solo essere, una sola sostanza, una sola realtà ontologica, la materia. Quindi non vi è stato affatto alcun salto irrazionale, o sovrannaturale, fra la natura e la civiltà, ma semplicemente un modo diverso di essere comunque nella natura; perché anche l’umanità è un prodotto della natura e le sue rivoluzioni, siano esse politiche, agricole, industriali, scientifiche sono rivoluzioni naturali (non importa quanto esse siano radicali, si pensi alla rivoluzione aerobica avuta dalle cellule che ha introdotto l’ossigeno sulla terra: la sua radicalità ha “devastato” il mondo precedente, ma non la rende per questo innaturale).
Aristotele nella sua Fisica, usa la celebre espressione secondo la cui il percorso del sapere va da ciò che è più conosciuto per noi a ciò che è più conosciuto per natura: i particolari sono più conosciuti per noi, gli universali sono più conosciuti per natura. Per capire quindi questi concetti complessi anche io preferisco guardare ciò che al momento mi è più vicino, sia temporalmente che geograficamente. Mi riferisco all’attività di ricerca dalla cosiddetta Scuola Umbra e al suo dibattito interno, che al momento ruota intorno al concetto di natura e in particolare a cosa distingue la natura dalla società – e, nel contesto politico in cui intervengono gli Umbri, se la rivoluzione deve essere una rivoluzione sociale o una rivoluzione naturale.
La grande forza innovativa di un piccolo laboratorio di ricerca contemporaneo come quello rappresentato dalla Scuola Umbra è di aver unito il materialismo ontologico, cioè il monismo, con il materialismo politico dei movimenti di tipo anarchico o marxista. Quando la Scuola Umbra titola il suo manifesto La rivoluzione naturale[16] o quando ipotizza che la rivoluzione è una forza della natura[17], essa risponde a questa terribile contraddizione: la realtà è una, tutto è natura, non vi è alcuna forza misterica nella catastrofe della civiltà. Per dirlo con le parole polemiche e ironiche del movimento Legittima Difesa ai tempi della moda no-global che affermava “un altro mondo è possibile”, noi crediamo che un altro mondo è impossibile, è questo che dobbiamo cambiare.

Il carattere ipotetico della natura in Rousseau, la lotta per un suo reale ritorno in Zerzan

C’è però una grandissima differenza fra Rousseau e Zerzan. Lo stato di natura descritto nel Discorso è in fin dei conti soltanto un’ipotesi, una congettura. Non importa se sia realmente esistito, ciò che davvero conta è che esso possa servire da base concettuale per capire la società contemporanea.

«Uno stato che non esiste più, che forse non è affatto esistito e probabilmente non esisterà mai, e sul quale tuttavia bisogna avere delle idee giuste per giudicare bene intorno al nostro stato presente»[18].

E ancora:

«Non bisogna prendere le ricerche in cui è necessario addentrarsi in questo argomento per verità storiche, ma solo per ragionamenti ipotetici e condizionali, destinati piuttosto a spiegare la natura delle cose che a mostrarne la vera origine, e simili a quelli intorno alla formazione del mondo che ogni giorno fanno i nostri fisici»[19].

In sintesi possiamo esprimere così la posizione di Rousseau:
1)    lo stato di natura non esistite più;
2)    lo stato di natura forse non è mai esistito;
3)    probabilmente non tornerà mai più questo mondo;
4)    esso è un’iposi che ci serve per comprendere il mondo attuale.

Certamente Zerzan sarebbe d’accordo con il punto 1) e in parte con il 4), ad esempio quando usa la sua “ipotesi” primitivista per capire, analizzare e criticare la società agricola, industriale e capitalista. Ma certamente non può essere d’accordo con i punti 2) e 3): è evidente che lo stato di natura secondo i primitivisti è esistito e che anzi dobbiamo cercare di tornarci.

« “Certo la critica è incisiva e tutto quanto, ma com’è possibile passare da questo mondo lugubre ad un’esistenza piena e genuina?” Penso che non dovremmo dubitare che questo viaggio sia possibile, né che l’esplosione necessaria per dargli inizio possa essere vicina
Il pensiero della cultura dominante, come sappiamo, ha sempre affermato che la vita alienata è inevitabile. Infatti, la cultura o la civiltà stessa esprime questo dogma essenziale: il processo di civilizzazione, come ha osservato Freud, è il passaggio forzato da una vita libera e naturale ad una vita di continua repressione. Oggigiorno la cultura langue, desolata e logora, ovunque si guardi. Più importante dell’entropia che affligge la logica della cultura è però quella che sembra essere la resistenza attiva, per quanto appena abbozzata, che le viene opposta. Questo è il raggio di speranza che disturba la gara, altrimenti fin troppo deprimente, cui assistiamo per vedere se arriverà prima l’alienazione totale o la distruzione della biomassa.
[…]
Per quanto riguarda la vita nelle aree urbane, si dovrebbe compiere qualsiasi passo verso l’autonomia e l’autosufficienza, a partire da ora, in modo da poter poi abbandonare tanto più rapidamente le città. Create in risposta all’esigenza del capitale di accentrare il controllo delle transazioni economiche, della religione e del dominio politico, le città restano enormi monumenti devastatori della vita in onore delle stesse esigenze basilari del capitale»[20].

In una recente intervista su un sito internet (paradossi del primitivismo!) di lingua italiana, Zerzan ha spiegato chiaramente che la società primitiva è esistita e che dobbiamo ritornare indietro.
Alla seguente domanda:

«Perché la critica della modernità non può portare ad un era “nuova” rispetto a quella moderna, ma deve necessariamente condurci ad un’era vecchia, quella detta “primitiva”, che l’uomo ha già superato?»

Zerzan ha risposto così:

«Una “era nuova” basata su che cosa? Cosa dovremmo perseverare? Niente di ciò che sta portando avanti l’ordine mondiale presumo»[21].

Certamente Rousseau ha una giustificazione: non conosce Darwin. Nonostante ciò egli dimostra di avere alcune straordinarie intuizioni in materia di evoluzione. Viceversa, malgrado Zerzan viva in un’era scientifica post-darwiniana, egli utilizza i risultati della ricerca naturalistica in tal senso, ma con scopi del tutto diversi. In altre parole Zerzan su questo punto è un po’ rozzo: è come se volesse allacciarsi le scarpe con le forbici – è evidente che i concetti ne escono malconci. Da una parte, dimostra una straordinaria conoscenza tecnica e scientifica sulle più aggiornate teorie antropologiche, archeologie, zoologiche e naturalistiche in generale. Dall’altra però, non comprende il messaggio filosofico di fondo del darwinismo: la continuità fra l’uomo e gli animali, nei cui confronti vi è una differenza di grado e non di genere, come spiega Darwin nell’Origine dell’uomo e l’evoluzione sessuale.
Lo si vede nella stessa intervista:

«Come si pone il primitivismo nei confronti delle teorie dell’evoluzione? Darwin nell’Origine dell’uomo e nei Taccuini filosofici, al contrario di quanto ritengono i liberisti e i nazisti del cosiddetto “darwinismo sociale”, cerca di dimostrare che la civiltà, la morale, la politica, l’altruismo, la solidarietà sono prodotti dell’evoluzione biologica: secondo questa teoria il branco e la tribù più solidale e organizzata aveva maggiori possibilità di sopravvivere e quindi di riprodursi, lasciandoci in eredità i cosiddetti “istinti sociali” come l’amore e la simpatia reciproca. Tali istinti sono presenti anche degli animali e nelle piante (Darwin si spinge a parlare perfino di “intelligenza vegetale”).
Se tali teorie fossero vere non metterebbero in contraddizione l’ipotesi primitivista? Paradossalmente il primitivismo apparirebbe come qualcosa di anti-naturalistico, che rifiuta i processi evolutivi degli organismi viventi e che vuole imporre artificialmente ad uno di questi organismi un percorso inverso a quello fino ad ora seguito».

Una domanda davvero interessante che colpisce il cuore filosofico della questione. Addirittura il primitivismo diventerebbe anti-naturalismo perché rifiuta l’idea che la natura sia ovunque e che da essa è impossibile uscirne. E’ esattamente il problema ontologico da cui siamo partiti: come si spiega l’uscita dalla natura per entrare nel mondo attuale? Le cose sono due: o tale uscita non c’è mai stata e siamo ancora nella natura (come credo io), oppure essa c’è stata a causa di forze sovrannaturali!
Peccato che la risposta di Zerzan sia molto povera, poco profonda e assai meno interessante della domanda.

«La domesticazione e la civilizzazione non sono sviluppi naturali né inevitabili. La tremenda resistenza lo dimostra […]. Si può sostenere che l’affermazione del fascismo significa che era imposto da leggi naturali dell’evoluzione ma certamente non è così. La complessità sociale è stata, ed è tutt’ora, portata avanti principalmente dalla divisione del lavoro e dalla specializzazione. Ma questa istituzione non da sempre è la regola. Per esempio, l’archeologia è perplessa davanti al fatto che le forme di arnesi di pietre non sono cambiate in un milione di anni, nonostante l’intelligenza per cambiarle era presente. Andava bene per una società stabile e ben adattata, quindi perché cambiarle?»[22].

Già perché? E’ proprio quello che vorremmo sapere! Ma Zerzan, come chiunque pensi che ci sia una differenza ontologica fra la natura e il mondo artificiale, non potrà mai dare tale risposta.
Lo stesso Rousseau è assai più avveduto. Avendo immaginato l’era primitiva solo come un’ipotesi, egli la può cambiare non appena né trova una migliore – come il metodo ipotetico ci insegna. E’ quello che infatti farà nel Contratto sociale. In esso, come spiega bene Reale, Rousseau introduce la dinamicità anche nel mondo della natura.
E’ qui che va cercata la risposta, anche sul piano ontologico. Non esistono due mondi ontologici separati: la natura e la storia. Né esiste solo uno: la natura. Ma questa è dinamica e in essa danzano una molteplicità di forme; una di queste è la nostra, quella in cui viviamo e che, se vogliamo, possiamo provare a modificare.


[1] J.-J. Rousseau, Origine della disuguaglianza, traduzione di Giulio Preti, Universale Economica Feltrinelli, Milano 2007, pag. 39-40.
[2] Ibidem.
[3] Ivi, pag. 41.
[4] Ivi, pag. 43-44.
[5] Ibidem.
[6] Ivi, pag. 45.
[7] Ivi, pag 60-61.
[8] Ibidem.
[9] M. Rale, Le ragioni della politica. J.-J. Rousseau dal “Discorso sull’ineguaglianza” al “Contratto”, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1983, pag 207-208.
[10] Green Anarchy Collective, Che cosa è l’anarchia verde! Un’introduzione al pensiero ed alla pratica anticivilizzazione anarchica, traduzione di Marco Camenisch, Terra Selvaggia n° 16 Marzo 2005.
[11] J.-J. Rousseau, Origine della disuguaglianza, pag. 72. 
[12] Ivi, pag. 81-82.
[13] Ibidem.
[14] J. Zerzan, Agricoltura, Terra selvaggia n° 5 aprile 2001.
[15] G. Rosati, Principi di materialismo, scuolaumbra.blogspot.com
[16] M. Fabiani, La rivoluzione naturale, bozza di manifesto in 19 ipotesi della Scuola Umbra, scuolaumbra.blogspot.com
[17] Ivi, Diciannovesima ipotesi.
[18] J.-J. Rousseau, Origine della disuguaglianza, pag. 29.
[19] Ivi, pag. 36-37.
[20] J. Zerzan, Sulla transizione, in Futuro primitivo, edizioni nautilus.
[21] Intervista a Zerzan: “la civilizzazione non è uno sviluppo naturale inevitabile. Guardare più in profondità di 200 anni”, www.anarchaos.org, 7 ottobre 2010.
[22] Ibidem.

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