DICIANNOVE IPOTESI
UNA PROPOSTA DI MANIFESTO PROGRAMMATICO PER LA SCUOLA UMBRA
di Michele Fabiani
Questo Manifesto è una proposta. Nasce dall'esigenza, da tutti noi avvertita, di dotarci di una carta d'identità, o forse di navigazione; di indicare, seppure per sommi capi, ma in maniera rigorosa, la nostra "concezione del mondo". Chi avrà modo di leggerlo capirà che esso è un documento impegnativo. Ed infatti ha subito suscitato, tra noi, una vivace e ricca discussione. Abbiamo iniziato discutendo collettivamente i primi capitoli e, come c'era da aspettarsi, sono emersi differenti punti di vista, anzitutto in ordine a concetti come Natura, Storia, Realtà, Conoscenza, Verità, Materialismo, Idealismo, Evoluzionismo. Iniziamo dunque le danze, nella certezza che questo dibattito, il confronto di idee, non potrà che spingerci in avanti.
Prima ipotesi
Questo Manifesto è una proposta. Nasce dall'esigenza, da tutti noi avvertita, di dotarci di una carta d'identità, o forse di navigazione; di indicare, seppure per sommi capi, ma in maniera rigorosa, la nostra "concezione del mondo". Chi avrà modo di leggerlo capirà che esso è un documento impegnativo. Ed infatti ha subito suscitato, tra noi, una vivace e ricca discussione. Abbiamo iniziato discutendo collettivamente i primi capitoli e, come c'era da aspettarsi, sono emersi differenti punti di vista, anzitutto in ordine a concetti come Natura, Storia, Realtà, Conoscenza, Verità, Materialismo, Idealismo, Evoluzionismo. Iniziamo dunque le danze, nella certezza che questo dibattito, il confronto di idee, non potrà che spingerci in avanti.
Prima ipotesi
Materialismo e liberazione
A nostro avviso la conoscenza della realtà, per quanto sempre instabile e continuamente suscettibile di correzione, è di per se un atto di liberazione. Tale liberazione avviene in primo luogo sul piano naturale, poiché un organismo che “conosce” l’ambiente che lo circonda ha certamente maggiori possibilità di sopravvivere. Ma tale liberazione è anche una liberazione esistenziale, perché aveva senz’altro ragione Epicuro nel ritenere che studiare la natura ci rende felici liberandoci da false convinzioni. Dunque tale liberazione è in ultima istanza politica: lo studio, l’analisi, l’investigazione del reale sono gli strumenti che permettono agli oppressi di conoscere non solo l’esperienza immediata della loro oppressione (che si presume evidente, cosa che invece per molti non è), ma di determinare le modalità con cui tale sfruttamento avviene e le ipotesi per sovvertire tale situazione. Ma l’aspetto naturale, felice e sovversivo della conoscenza non deve trarre in inganno. Come ci insegna Platone nel mito della caverna, spesso gli oppressi non vogliono uscire dalla loro oppressione e gli ignoranti non vogliono redimersi dalla loro ignoranza, a meno che non si verifichi un fatto violento che li spinga forzatamente ad uscire dalla loro “prigionia”. Questo fatto confuta l’idea demagogica di una proposta politica immediatamente “piacevole” e al contempo efficace.
La peculiarità dell’orizzonte epistemologico materialista è che permette di determinare la realtà “dal punto di vista della realtà stessa”, senza l’ipotesi di un piano ontologicamente separato, che esso sia il mondo platonico delle idee o la “cosa cognitiva” (res cogitans) negrian-cartesiana.
Seconda ipotesi
A nostro avviso la conoscenza della realtà, per quanto sempre instabile e continuamente suscettibile di correzione, è di per se un atto di liberazione. Tale liberazione avviene in primo luogo sul piano naturale, poiché un organismo che “conosce” l’ambiente che lo circonda ha certamente maggiori possibilità di sopravvivere. Ma tale liberazione è anche una liberazione esistenziale, perché aveva senz’altro ragione Epicuro nel ritenere che studiare la natura ci rende felici liberandoci da false convinzioni. Dunque tale liberazione è in ultima istanza politica: lo studio, l’analisi, l’investigazione del reale sono gli strumenti che permettono agli oppressi di conoscere non solo l’esperienza immediata della loro oppressione (che si presume evidente, cosa che invece per molti non è), ma di determinare le modalità con cui tale sfruttamento avviene e le ipotesi per sovvertire tale situazione. Ma l’aspetto naturale, felice e sovversivo della conoscenza non deve trarre in inganno. Come ci insegna Platone nel mito della caverna, spesso gli oppressi non vogliono uscire dalla loro oppressione e gli ignoranti non vogliono redimersi dalla loro ignoranza, a meno che non si verifichi un fatto violento che li spinga forzatamente ad uscire dalla loro “prigionia”. Questo fatto confuta l’idea demagogica di una proposta politica immediatamente “piacevole” e al contempo efficace.
La peculiarità dell’orizzonte epistemologico materialista è che permette di determinare la realtà “dal punto di vista della realtà stessa”, senza l’ipotesi di un piano ontologicamente separato, che esso sia il mondo platonico delle idee o la “cosa cognitiva” (res cogitans) negrian-cartesiana.
Seconda ipotesi
Dal materialismo al naturalismo
Nonostante le efficaci battaglie filosofiche combattute a partire da Marx a favore del materialismo, tale ipotesi con lo sviluppo della scienza contemporanea da una parte e il fallimento dei tentativi rivoluzionari del XX secolo dall’altra ha bisogno di essere profondamente aggiornata. I rapporti sociali sono certamente rapporti materiali, ma sono anche molto di più: sono rapporti naturali. Le dinamiche che regolano la nostra vita, la nostra società, la nostra relazione politica con gli altri non sono le stesse che regolano lo scontro fra due sassi su Marte.
Secondo la Scuola Umbra bisogna uscire dal meccanicismo di un certo materialismo volgare che pretende di determinare l’evolvere degli eventi in quanto concatenati causalmente. Se poi accade, come spesso accade, che guarda caso tali previsioni astrologiche determinano in maniera inequivocabile il trionfo della rivoluzione, è chiaro che ci troviamo di fronte ad un atteggiamento a dir poco infantile.
Ovviamente questo non significa dedurre, in maniera altrettanto meccanica, che allora è tutto da buttare nel cesso e che la realtà è dominata da forze “mentali”, o meramente algoritmiche, come i valori di un titolo in borsa, o perfino magiche, che producono quei valori dal nulla.
La soluzione scientifica adeguata sta invece nello sviluppo del materialismo nel naturalismo. Noi siamo esseri naturali, prodotti della natura. In quanto tali, lottiamo per sopravvivere e siamo il prodotto di questa lotta. In questa guerra, noi come tutti gli altri esseri viventi, facciamo delle scelte, siamo liberi. L’aspetto davvero importante della proposta scientifica del naturalismo è che questa nostra libertà, questa libertà che fa saltare il mero calcolo deduttivo delle cause e degli effetti, che manda a monte ogni determinismo e ogni finalismo, ebbene questa libertà non è una qualità trascendente e magica, ma è un “mistero” assolutamente scientifico, materiale. Naturale.
Terza ipotesi
Nonostante le efficaci battaglie filosofiche combattute a partire da Marx a favore del materialismo, tale ipotesi con lo sviluppo della scienza contemporanea da una parte e il fallimento dei tentativi rivoluzionari del XX secolo dall’altra ha bisogno di essere profondamente aggiornata. I rapporti sociali sono certamente rapporti materiali, ma sono anche molto di più: sono rapporti naturali. Le dinamiche che regolano la nostra vita, la nostra società, la nostra relazione politica con gli altri non sono le stesse che regolano lo scontro fra due sassi su Marte.
Secondo la Scuola Umbra bisogna uscire dal meccanicismo di un certo materialismo volgare che pretende di determinare l’evolvere degli eventi in quanto concatenati causalmente. Se poi accade, come spesso accade, che guarda caso tali previsioni astrologiche determinano in maniera inequivocabile il trionfo della rivoluzione, è chiaro che ci troviamo di fronte ad un atteggiamento a dir poco infantile.
Ovviamente questo non significa dedurre, in maniera altrettanto meccanica, che allora è tutto da buttare nel cesso e che la realtà è dominata da forze “mentali”, o meramente algoritmiche, come i valori di un titolo in borsa, o perfino magiche, che producono quei valori dal nulla.
La soluzione scientifica adeguata sta invece nello sviluppo del materialismo nel naturalismo. Noi siamo esseri naturali, prodotti della natura. In quanto tali, lottiamo per sopravvivere e siamo il prodotto di questa lotta. In questa guerra, noi come tutti gli altri esseri viventi, facciamo delle scelte, siamo liberi. L’aspetto davvero importante della proposta scientifica del naturalismo è che questa nostra libertà, questa libertà che fa saltare il mero calcolo deduttivo delle cause e degli effetti, che manda a monte ogni determinismo e ogni finalismo, ebbene questa libertà non è una qualità trascendente e magica, ma è un “mistero” assolutamente scientifico, materiale. Naturale.
Terza ipotesi
La conoscenza come soluzione di problemi, a partire dal problema della sopravvivenza
La maniera ipotetica con cui procediamo ci permette di sviluppare ulteriori importanti elementi del nostro sistema scientifico-filosofico-politico. Ad esempio l’orizzonte materialista e l’importante innovazione naturalista ci permettono di rispondere ad una domanda scientifica e filosofica di prima importanza: Che cos’è la conoscenza? Per noi la conoscenza è soluzione di problemi. Il fatto che, a nostro avviso, la conoscenza sia soluzione di problemi, colloca la proposta filosofica della Scuola Umbra, da un punto di vista epistemologico, all’interno della cosiddetta concezione euristica. Infatti, secondo la concezione euristica, la conoscenza è soluzione di problemi.
Come si coniuga la concezione della conoscenza come soluzione di problemi all’interno dell’orizzonte materialista e in particolare nell’innovazione naturalista? Il soggetto che risolve problemi è un soggetto naturale, un organismo. Il primo problema che il soggetto-organismo deve risolvere è il problema della sopravvivenza. Un problema che come è evidente è assolutamente materiale, naturale. Il problema della sopravvivenza è un problema centrale in tutti gli ambiti: dall’evoluzione biologica alla lotta di classe ciò che spinge i soggetti alla lotta è in primo luogo è il problema della sopravvivenza.
Ma poiché la Scuola Umbra intende procedere in maniera scientifica, sarà utile sottolineare che questa nostra ipotesi non deve mutarsi in un dogma. Ci sono dei casi in cui l’ipotesi non è valida, altrimenti verrebbe meno il suo carattere ipotetico. Prendiamo il concetto di evoluzione sessuale, ad esempio. A parità di condizioni di sopravvivenza, hanno maggiori possibilità di riprodursi e quindi di trasmettere i loro caratteri ereditari quegli individui che vengono considerati più affascinanti per i propri partner: è ciò che ha permesso ai pavoni maschi di sviluppare la loro bellissima coda (assolutamente inutile dal punto di vista della sopravvivenza), lo stesso processo che ha permesso agli esseri umani di perdere i loro peli rispetto agli altri primati (si ipotizza).
Questa nuova scienza è così rivoluzionaria che ci permette di rispondere ad un problema storico della filosofia, aperto da Platone e fino ad oggi ancora irrisolto, ovvero il concetto di “Bello in sé”. L’idea di bellezza non proviene dall’Iperuranio platonico, ma dalla natura. L’intuizione di Platone di una identità fra Bello e Bene è però ancora valida, ma proprio da un punto di vista rovesciato, ovvero quello del materialismo naturalista: una cosa giusta è anche una cosa bella; infatti ciò che ci permette di liberarci da un peso oppressivo, da un ingiustizia che peggiora le nostre condizioni di vita e talvolta arriva a mettere a rischio la nostra stessa sopravvivenza, è evidente che ci appare naturalmente come Bene e come Bello. Questo ci spiega non solo l’identità in Platone fra l’idea del Bene e l’idea del Bello, ma anche il fascino che l’anarchismo insurrezionalista subisce nei confronti della cosiddetta propaganda col fatto, identificando l’azione diretta come un atto al contempo di liberazione e di estetica.
Quarta ipotesi
La maniera ipotetica con cui procediamo ci permette di sviluppare ulteriori importanti elementi del nostro sistema scientifico-filosofico-politico. Ad esempio l’orizzonte materialista e l’importante innovazione naturalista ci permettono di rispondere ad una domanda scientifica e filosofica di prima importanza: Che cos’è la conoscenza? Per noi la conoscenza è soluzione di problemi. Il fatto che, a nostro avviso, la conoscenza sia soluzione di problemi, colloca la proposta filosofica della Scuola Umbra, da un punto di vista epistemologico, all’interno della cosiddetta concezione euristica. Infatti, secondo la concezione euristica, la conoscenza è soluzione di problemi.
Come si coniuga la concezione della conoscenza come soluzione di problemi all’interno dell’orizzonte materialista e in particolare nell’innovazione naturalista? Il soggetto che risolve problemi è un soggetto naturale, un organismo. Il primo problema che il soggetto-organismo deve risolvere è il problema della sopravvivenza. Un problema che come è evidente è assolutamente materiale, naturale. Il problema della sopravvivenza è un problema centrale in tutti gli ambiti: dall’evoluzione biologica alla lotta di classe ciò che spinge i soggetti alla lotta è in primo luogo è il problema della sopravvivenza.
Ma poiché la Scuola Umbra intende procedere in maniera scientifica, sarà utile sottolineare che questa nostra ipotesi non deve mutarsi in un dogma. Ci sono dei casi in cui l’ipotesi non è valida, altrimenti verrebbe meno il suo carattere ipotetico. Prendiamo il concetto di evoluzione sessuale, ad esempio. A parità di condizioni di sopravvivenza, hanno maggiori possibilità di riprodursi e quindi di trasmettere i loro caratteri ereditari quegli individui che vengono considerati più affascinanti per i propri partner: è ciò che ha permesso ai pavoni maschi di sviluppare la loro bellissima coda (assolutamente inutile dal punto di vista della sopravvivenza), lo stesso processo che ha permesso agli esseri umani di perdere i loro peli rispetto agli altri primati (si ipotizza).
Questa nuova scienza è così rivoluzionaria che ci permette di rispondere ad un problema storico della filosofia, aperto da Platone e fino ad oggi ancora irrisolto, ovvero il concetto di “Bello in sé”. L’idea di bellezza non proviene dall’Iperuranio platonico, ma dalla natura. L’intuizione di Platone di una identità fra Bello e Bene è però ancora valida, ma proprio da un punto di vista rovesciato, ovvero quello del materialismo naturalista: una cosa giusta è anche una cosa bella; infatti ciò che ci permette di liberarci da un peso oppressivo, da un ingiustizia che peggiora le nostre condizioni di vita e talvolta arriva a mettere a rischio la nostra stessa sopravvivenza, è evidente che ci appare naturalmente come Bene e come Bello. Questo ci spiega non solo l’identità in Platone fra l’idea del Bene e l’idea del Bello, ma anche il fascino che l’anarchismo insurrezionalista subisce nei confronti della cosiddetta propaganda col fatto, identificando l’azione diretta come un atto al contempo di liberazione e di estetica.
Quarta ipotesi
Il ruolo delle emozioni nella conoscenza
Nella soluzione dei problemi, e quindi nella scelta delle ipotesi per risolverli, giocano un ruolo essenziale le emozioni. Il ruolo delle emozioni è ciò che divide il nostro metodo scientifico dall’ “empirismo astratto” dell’analitica di matrice anglo-americana. Si prendano come esempio le posizioni di Popper, il quale da un punto di vista meramente metodologico pare avere delle posizioni in fin dei conti simili alle nostre. Ora, al di là dell’aspetto politico su cui ovviamente siamo agli antipodi, il metodo popperiano per quanto si richiami alla verifica sperimentale, alla falsificazione delle ipotesi e altre simili petizioni di principio rimane un metodo sostanzialmente deduttivo – come lo stesso Popper rivendica.
A nostro avviso invece, non solo giocano un ruolo essenziale nella soluzioni dei problemi operatori mentali come l’induzione (che Popper ridicolizza), ma anche aspetti considerati con pressappochismo irrazionali come le emozioni. Le emozioni sono al contrario un motore fondamentale per la scelta delle ipotesi. Di fronte ad un problema urgente le emozioni interrompono il calcolo deduttivo, che può andare avanti fino all’infinito, e obbligano il soggetto-organismo ad una scelta considerata plausibile, anche se ovviamente tutt’altro che certa. Le emozioni sono dunque un istinto fondamentale che la natura ci ha donato. Non solo. Le emozioni non sono utili solo nella savana, inseguiti da un belva affamata, ma anche nella società. Le emozioni giocano un ruolo essenziale ad esempio nella lotta di classe – oltre che nella lotta per la sopravvivenza. Così come le emozioni giocano un ruolo essenziale nella scienza. Si pensi alla medicina, all’emozione per la lotta contro malattie che offendono gravemente l’umanità – o magari all’emozione che suscita il denaro per l’azionista della casa farmaceutica.
Cosa spinge uno scienziato alla ricerca se un’emozione? Cosa spinge noi nello studio della realtà se non un’emozione? Cosa ci spinge alla solidarietà umana, fraterna e perfino di classe se non le emozioni? Perché si sceglie la rivoluzione se non altissime emozioni, come l’amore per gli oppressi e l’odio verso i padroni?
Quinta ipotesi
Nella soluzione dei problemi, e quindi nella scelta delle ipotesi per risolverli, giocano un ruolo essenziale le emozioni. Il ruolo delle emozioni è ciò che divide il nostro metodo scientifico dall’ “empirismo astratto” dell’analitica di matrice anglo-americana. Si prendano come esempio le posizioni di Popper, il quale da un punto di vista meramente metodologico pare avere delle posizioni in fin dei conti simili alle nostre. Ora, al di là dell’aspetto politico su cui ovviamente siamo agli antipodi, il metodo popperiano per quanto si richiami alla verifica sperimentale, alla falsificazione delle ipotesi e altre simili petizioni di principio rimane un metodo sostanzialmente deduttivo – come lo stesso Popper rivendica.
A nostro avviso invece, non solo giocano un ruolo essenziale nella soluzioni dei problemi operatori mentali come l’induzione (che Popper ridicolizza), ma anche aspetti considerati con pressappochismo irrazionali come le emozioni. Le emozioni sono al contrario un motore fondamentale per la scelta delle ipotesi. Di fronte ad un problema urgente le emozioni interrompono il calcolo deduttivo, che può andare avanti fino all’infinito, e obbligano il soggetto-organismo ad una scelta considerata plausibile, anche se ovviamente tutt’altro che certa. Le emozioni sono dunque un istinto fondamentale che la natura ci ha donato. Non solo. Le emozioni non sono utili solo nella savana, inseguiti da un belva affamata, ma anche nella società. Le emozioni giocano un ruolo essenziale ad esempio nella lotta di classe – oltre che nella lotta per la sopravvivenza. Così come le emozioni giocano un ruolo essenziale nella scienza. Si pensi alla medicina, all’emozione per la lotta contro malattie che offendono gravemente l’umanità – o magari all’emozione che suscita il denaro per l’azionista della casa farmaceutica.
Cosa spinge uno scienziato alla ricerca se un’emozione? Cosa spinge noi nello studio della realtà se non un’emozione? Cosa ci spinge alla solidarietà umana, fraterna e perfino di classe se non le emozioni? Perché si sceglie la rivoluzione se non altissime emozioni, come l’amore per gli oppressi e l’odio verso i padroni?
Quinta ipotesi
“Naturale” non significa “necessario”
Le ipotesi fin qui svolte continuano ad arricchire il terreno della conoscenza e a produrre nuovi importantissimi frutti. Il concetto di materialismo naturalista e di conoscenza intesa come capacità di risolvere i problemi ci porta finalmente fuori da una delle contraddizioni in cui andava ad incastrarsi una parte del materialismo volgare di tipo determinista. Il soggetto-organismo nella sua lotta per la sopravvivenza non si comporta in maniera deduttivamente determinabile, ma procede per via ipotetica. Questo ci libera dal determinismo, dal meccanicismo e dal finalismo; senza abbandonare il materialismo, ma anzi esaltandolo come naturale.
Questo fatto è evidente a tutti i gradi di sviluppo: lo studio in laboratorio del comportamento dei batteri indica inequivocabilmente che questi soggetti sono in grado di avere delle percezioni, per quanto elementari, dell’ambiente circostante e di comportarsi di conseguenza. Questi soggetti hanno se vogliamo una capacità teoretica (nel senso greco del termine), “osservano” l’ambiente e “fanno ipotesi”.
Perché questo fatto ci libera dal determinismo? Perché nella lotta per la sopravvivenza si sviluppano le ipotesi più disparate e il “vincitore” è determinato da una complessa dialettica fra l’abilità del soggetto e la casualità oggettiva che premia una strategia evolutiva piuttosto che un’altra. La nostra natura è molto diversa dalla Natura degli stoici. La natura stoica è ben poco naturale, il loro materialismo è quello dei due sassi che si scontrano su Marte. I soggetti naturali lottano, mettono in gioco la loro astuzia, usano la loro intelligenza l’uno contro l’altro. In questa lotta scompare ogni residuo di determinismo, o meglio vi è una dialettica fra la realtà oggettiva e la capacità soggettiva di imporsi su di essa.
Ma se naturale non significa necessario, allora lo scontro ideologico sul sesso dell’angelo capitalista si rivela del tutto inutile. Ci riferiamo alla divergenza di opinioni fra chi sostiene che il capitalismo sia qualcosa di naturale e di necessario e chi sostiene che il capitalismo sia piuttosto qualcosa di innaturale da combattere. Tutto ciò che avviene è parte della natura. Questo non significa che tutto sia necessario e meno che mai che sia giusto le cose vadano così, appunto secondo una concezione stoica della natura, secondo la quale vi sarebbe una Provvidenza della Natura in tutto ciò che accade.
Il fatto che una minoranza di ricchi abbia imposto il modo di produzione capitalistico non significa né che ciò sia giusto né che meno che mai sia necessario. E’ certamente un processo che avviene nella natura, una lotta per la sopravvivenza, come testimonia lo sterminio di classe della borghesia ai danni del proletariato.
Come ebbe modo di scrivere Costanzo Preve a proposito di comunismo, siamo di fronte ad un malato grave: non possiamo dire se riuscirà a sopravvivere (figuriamoci se possiamo prevedere la sua vittoria necessaria), potrebbe anche non farcela. Anche se noi tifiamo per lui.
Sesta ipotesi
Le ipotesi fin qui svolte continuano ad arricchire il terreno della conoscenza e a produrre nuovi importantissimi frutti. Il concetto di materialismo naturalista e di conoscenza intesa come capacità di risolvere i problemi ci porta finalmente fuori da una delle contraddizioni in cui andava ad incastrarsi una parte del materialismo volgare di tipo determinista. Il soggetto-organismo nella sua lotta per la sopravvivenza non si comporta in maniera deduttivamente determinabile, ma procede per via ipotetica. Questo ci libera dal determinismo, dal meccanicismo e dal finalismo; senza abbandonare il materialismo, ma anzi esaltandolo come naturale.
Questo fatto è evidente a tutti i gradi di sviluppo: lo studio in laboratorio del comportamento dei batteri indica inequivocabilmente che questi soggetti sono in grado di avere delle percezioni, per quanto elementari, dell’ambiente circostante e di comportarsi di conseguenza. Questi soggetti hanno se vogliamo una capacità teoretica (nel senso greco del termine), “osservano” l’ambiente e “fanno ipotesi”.
Perché questo fatto ci libera dal determinismo? Perché nella lotta per la sopravvivenza si sviluppano le ipotesi più disparate e il “vincitore” è determinato da una complessa dialettica fra l’abilità del soggetto e la casualità oggettiva che premia una strategia evolutiva piuttosto che un’altra. La nostra natura è molto diversa dalla Natura degli stoici. La natura stoica è ben poco naturale, il loro materialismo è quello dei due sassi che si scontrano su Marte. I soggetti naturali lottano, mettono in gioco la loro astuzia, usano la loro intelligenza l’uno contro l’altro. In questa lotta scompare ogni residuo di determinismo, o meglio vi è una dialettica fra la realtà oggettiva e la capacità soggettiva di imporsi su di essa.
Ma se naturale non significa necessario, allora lo scontro ideologico sul sesso dell’angelo capitalista si rivela del tutto inutile. Ci riferiamo alla divergenza di opinioni fra chi sostiene che il capitalismo sia qualcosa di naturale e di necessario e chi sostiene che il capitalismo sia piuttosto qualcosa di innaturale da combattere. Tutto ciò che avviene è parte della natura. Questo non significa che tutto sia necessario e meno che mai che sia giusto le cose vadano così, appunto secondo una concezione stoica della natura, secondo la quale vi sarebbe una Provvidenza della Natura in tutto ciò che accade.
Il fatto che una minoranza di ricchi abbia imposto il modo di produzione capitalistico non significa né che ciò sia giusto né che meno che mai sia necessario. E’ certamente un processo che avviene nella natura, una lotta per la sopravvivenza, come testimonia lo sterminio di classe della borghesia ai danni del proletariato.
Come ebbe modo di scrivere Costanzo Preve a proposito di comunismo, siamo di fronte ad un malato grave: non possiamo dire se riuscirà a sopravvivere (figuriamoci se possiamo prevedere la sua vittoria necessaria), potrebbe anche non farcela. Anche se noi tifiamo per lui.
Sesta ipotesi
Causalità e libertà
Bisogna quindi distinguere, da un punto di vista rigorosamente logico, fra il concetto di cause materiali-naturali e cause necessarie. Tutti i quattro generi di cause in Aristotele – causa formale, causa materiale, causa efficiente e causa finale – sono in ultima istanza cause necessarie. Ciò che invece è causa della realtà nella sua complessità, cioè che è causa delle organizzazioni sociali e politiche che gli uomini e gli altri animali si danno, ha una natura profondamente diversa e meno determinista. Non vi è alcuna ragione logica, fisica, meccanica o teleologica che determini a priori l’intero svolgimento del reale. Questo però non significa accettare l’irrazionale, o il solipsismo, o il nichilismo. Piuttosto vi sono della cause assolutamente naturali che determinano le condizioni materiali in cui il soggetto si sviluppa e agisce.
Tutti noi siamo inseriti in un contesto oggettivo, in un ambiente. Questo ambiente determina la nostra natura. Ma come ci insegna Epicuro nell’Epistola a Erodono, la natura può essere forzata dai fatti. Il contesto sociale, economico, politico, ambientale in cui viviamo è un dato oggettivo da cui non possiamo essere astratti. Nonostante ciò il nostro intervento soggettivo si contrappone ad esso, spingendoci ad intervenire e a modificare il nostro ambiente; questo intervento dialettico del soggetto nell’oggetto, questa forza soggettiva rivoluzionaria non ha elementi magici o misterici, è una forza della natura.
Prendiamo un livello volutamente macroscopico e banale: noi non siamo in grado di decidere in quale direzione far girare il nostro pianeta intorno al Sole, siamo però in grado – con lo studio, con la ricerca, con la scienza – di modificare il mondo che ci circonda, e chissà forse un giorno di produrre delle forze così violente (e ovviamente inutili, ma il nostro è un esempio volutamente banale) in grado di modificare parte degli stessi movimenti planetari.
Vi è quindi un inseguimento del soggetto e una fuga dell’oggetto. Questo rapporto è certamente dialettico, come Hegel ci insegna. Hegel però vedeva questo rapporto come necessario oltre che come naturale. Per noi questo processo non ha né un fine verso cui tendere né una causa che lo ha prodotto, non è necessario e non è prevedibile. E’ però dialettico; in questo siamo hegeliani, non nel determinismo. O meglio una causa e un fine ci sono eccome, ma non determinano necessariamente ogni anello di una indissolubile catena deduttiva: essi sono nella lotta per la sopravvivenza, nella lotta per vivere meglio, nella lotta contro l’oppressione e la libertà. Questa lotta è una forza della natura, un motore della storia, ma di una storia che non è programmabile a tavolino ma la si contribuisce a scrivere proprio ora.
Settima ipotesi
Bisogna quindi distinguere, da un punto di vista rigorosamente logico, fra il concetto di cause materiali-naturali e cause necessarie. Tutti i quattro generi di cause in Aristotele – causa formale, causa materiale, causa efficiente e causa finale – sono in ultima istanza cause necessarie. Ciò che invece è causa della realtà nella sua complessità, cioè che è causa delle organizzazioni sociali e politiche che gli uomini e gli altri animali si danno, ha una natura profondamente diversa e meno determinista. Non vi è alcuna ragione logica, fisica, meccanica o teleologica che determini a priori l’intero svolgimento del reale. Questo però non significa accettare l’irrazionale, o il solipsismo, o il nichilismo. Piuttosto vi sono della cause assolutamente naturali che determinano le condizioni materiali in cui il soggetto si sviluppa e agisce.
Tutti noi siamo inseriti in un contesto oggettivo, in un ambiente. Questo ambiente determina la nostra natura. Ma come ci insegna Epicuro nell’Epistola a Erodono, la natura può essere forzata dai fatti. Il contesto sociale, economico, politico, ambientale in cui viviamo è un dato oggettivo da cui non possiamo essere astratti. Nonostante ciò il nostro intervento soggettivo si contrappone ad esso, spingendoci ad intervenire e a modificare il nostro ambiente; questo intervento dialettico del soggetto nell’oggetto, questa forza soggettiva rivoluzionaria non ha elementi magici o misterici, è una forza della natura.
Prendiamo un livello volutamente macroscopico e banale: noi non siamo in grado di decidere in quale direzione far girare il nostro pianeta intorno al Sole, siamo però in grado – con lo studio, con la ricerca, con la scienza – di modificare il mondo che ci circonda, e chissà forse un giorno di produrre delle forze così violente (e ovviamente inutili, ma il nostro è un esempio volutamente banale) in grado di modificare parte degli stessi movimenti planetari.
Vi è quindi un inseguimento del soggetto e una fuga dell’oggetto. Questo rapporto è certamente dialettico, come Hegel ci insegna. Hegel però vedeva questo rapporto come necessario oltre che come naturale. Per noi questo processo non ha né un fine verso cui tendere né una causa che lo ha prodotto, non è necessario e non è prevedibile. E’ però dialettico; in questo siamo hegeliani, non nel determinismo. O meglio una causa e un fine ci sono eccome, ma non determinano necessariamente ogni anello di una indissolubile catena deduttiva: essi sono nella lotta per la sopravvivenza, nella lotta per vivere meglio, nella lotta contro l’oppressione e la libertà. Questa lotta è una forza della natura, un motore della storia, ma di una storia che non è programmabile a tavolino ma la si contribuisce a scrivere proprio ora.
Settima ipotesi
Animalismo e intelligenza animale
Se si considerasse la conoscenza come mera deduzione e computazione si dovrebbe considerare dei deficenti i batteri e degli esseri razionali i computer. A nostro avviso invece i batteri sono degli esseri razionali. Per quanto riguarda i computer, è in corso da qualche decennio un interessante dibattito scientifico-filosofico intorno alla cosiddetta intelligenza artificiale. La nostra posizione è, ancora una volta, legata a doppio filo con la concezione euristica: i computer non sono intelligenti in base alla loro potenza meccanica, ma in base alla loro capacità di risolvere problemi.
Ma torniamo agli animali. Il fatto che gli animali sono esseri razionali, con capacità teoretiche, in grado di osservare dei fatti, fare induzione, e utilizzare le ipotesi per agire, distrugge una volta per tutte ogni pretesa cartesiana di differenziazione qualitativa e ontologica fra gli animali e gli esseri umani. Certamente l’intelligenza umana è più astratta di quella animale e questa capacità astrattiva è certamente positiva se serve a risolvere problemi più complessi e quindi a vivere meglio. Non vi sono dunque giustificazioni morali per la violenza gratuita degli uomini sugli altri animali, vi possono essere delle giustificazioni naturali (come il nutrimento o lo sfruttamento per vivere meglio). Non entriamo nel merito di queste giustificazioni, poiché all’interno della Scuola – come è naturale che sia – vi sono posizioni divergenti e comunque non vogliamo chiudere il nostro movimento e le nostre ricerche su questa questione in maniera dogmatica una volta per tutte. Ci limitiamo a dire che il fondamento metafisico dell’oppressione umana sugli altri animali non sta in piedi, ed è anzi spregevole e innaturale.
Ottava ipotesi
Se si considerasse la conoscenza come mera deduzione e computazione si dovrebbe considerare dei deficenti i batteri e degli esseri razionali i computer. A nostro avviso invece i batteri sono degli esseri razionali. Per quanto riguarda i computer, è in corso da qualche decennio un interessante dibattito scientifico-filosofico intorno alla cosiddetta intelligenza artificiale. La nostra posizione è, ancora una volta, legata a doppio filo con la concezione euristica: i computer non sono intelligenti in base alla loro potenza meccanica, ma in base alla loro capacità di risolvere problemi.
Ma torniamo agli animali. Il fatto che gli animali sono esseri razionali, con capacità teoretiche, in grado di osservare dei fatti, fare induzione, e utilizzare le ipotesi per agire, distrugge una volta per tutte ogni pretesa cartesiana di differenziazione qualitativa e ontologica fra gli animali e gli esseri umani. Certamente l’intelligenza umana è più astratta di quella animale e questa capacità astrattiva è certamente positiva se serve a risolvere problemi più complessi e quindi a vivere meglio. Non vi sono dunque giustificazioni morali per la violenza gratuita degli uomini sugli altri animali, vi possono essere delle giustificazioni naturali (come il nutrimento o lo sfruttamento per vivere meglio). Non entriamo nel merito di queste giustificazioni, poiché all’interno della Scuola – come è naturale che sia – vi sono posizioni divergenti e comunque non vogliamo chiudere il nostro movimento e le nostre ricerche su questa questione in maniera dogmatica una volta per tutte. Ci limitiamo a dire che il fondamento metafisico dell’oppressione umana sugli altri animali non sta in piedi, ed è anzi spregevole e innaturale.
Ottava ipotesi
L’umanità come prodotto dialettico della natura e degli uomini
L’umanità dunque è un prodotto della natura. Ma non è un prodotto della natura in senso meccanico, deterministico e necessario. Non è scritto da nessuna parte che le cose sarebbero dovute andare così come sono effettivamente andate, che l’evoluzione avesse dovuto prendere necessariamente questa piega. L’umanità – sembra banale dirlo – è un prodotto degli uomini. Ma gli uomini sono un prodotto della natura. E la natura non è forse un prodotto dei soggetti-organismi che vi agiscono?
Il grandissimo scienziato russo Vernadskij ha scritto della pagine illuminanti in proposito. Egli sottolinea come gli organismi modificano e determinano l’ambiente in cui essi stessi sono inseriti. Si pensi alla differenza fra il mondo privo di vita e la nostra biosfera. E’ la stessa differenza che, sul piano del metodo scientifico, noi facciamo fra mero materialismo e materialismo naturalista. Si pensi a quanto ha cambiato il mondo, fisicamente, in maniera “visibile” agli occhi con le sue forme e i suoi colori, l’emergenza del regno vegetale. Vernadskij ritiene dunque che anche gli uomini, in quanto forza della natura, modificano l’ambiente che li circonda, con le loro case, palazzi, piazze, strade, ecc. Egli inventa per descrivere questo nuovo ambiente creato dagli uomini, questo nuovo pianeta, noosfera.
Torniamo all’umanità. Essa è un prodotto della natura e degli uomini, e gli uomini stessi sono un prodotto della natura, e la natura stessa è un prodotto dei soggetti-organismi che la formano. Questo ovviamente vale ad un livello meramente anatomico, con la nostra conformazione fisica, con lo sviluppo del cervello, ecc. Ma vale anche ad un livello “metafisico”. I nostri valori morali sono un prodotto della natura, come Darwin ci ha mostrato nell’Origine dell’uomo. Ad esempio il valore che ci impone di non accoppiarci fra con sanguigni è in primo luogo un prodotto della natura volto al rafforzamento genetico della specie. Il valore che ci impone di non uccidere altri essi umani è un prodotto della natura, anch’esso mirante alla conservazione della specie.
Più in generale, l’uomo animale sociale è un prodotto della natura. L’uomo è un animale sociale, come afferma Marx. Tale animale, come scopriva negli stessi anni Darwin, ha avuto uno sviluppo sociale molto semplicemente perché la nostra conformazione fisica ci impediva, a differenza di animali più forti (ad esempio il gorilla), di vivere da soli. Questo non perché vi sia una guida razionale della natura, ma semplicemente perché chi rimaneva solo veniva sbranato, non veniva curato, non trovava un partner con cui accoppiarsi e quindi non riproduceva la sua “attitudine” alla solitudine.
Ma da animale sociale è l’uomo è poi diventato, per citare Aristotele, un animale politico. In quanto animale sociale l’uomo ha dovuto cooperare con gli altri uomini, ha dovuto comunicare con loro, ha introdotto la scrittura, ha diviso il lavoro con gli altri. La società patriarcale è stata “recentemente” superata ed è diventata una società gerarchica, spesso sessista. Tale prodotto non è certo una forza innaturale, tutto proviene dalla natura. Anche il patriarcato è, in un certo senso, naturale. Ma ovviamente, come abbiamo già spiegato, esso non è necessario. Anzi gli uomini – in questo caso, le donne – come direbbe Hegel sono in grado di mettere il mondo “sulla testa”, di ribaltare la realtà. Quando lo sviluppo sociale è diventato uno sviluppo gerarchico, l’umanità è diventata la categoria degli animali politici. Oggi noi non possiamo fare a meno di fare politica, ogni nostro atto è un atto politico.
L’umanità è quindi il prodotto di questa dialettica. L’umanità non può rinnegare il suo legame con la natura, il fatto di essere un prodotto della natura. Lo si vede in tutto ciò che gli uomini fanno. Anche nelle cose più “innaturali”. Nella guerra vengono fatte le più straordinarie scoperte scientifiche perché nella guerra si fa più incalzante il problema naturale della sopravvivenza. Le rivoluzione esplodono quando le masse hanno fame, perché la fame – e quindi la lotta per la sopravvivenza – è una forza della natura, un motore della storia.
Nona ipotesi
L’umanità dunque è un prodotto della natura. Ma non è un prodotto della natura in senso meccanico, deterministico e necessario. Non è scritto da nessuna parte che le cose sarebbero dovute andare così come sono effettivamente andate, che l’evoluzione avesse dovuto prendere necessariamente questa piega. L’umanità – sembra banale dirlo – è un prodotto degli uomini. Ma gli uomini sono un prodotto della natura. E la natura non è forse un prodotto dei soggetti-organismi che vi agiscono?
Il grandissimo scienziato russo Vernadskij ha scritto della pagine illuminanti in proposito. Egli sottolinea come gli organismi modificano e determinano l’ambiente in cui essi stessi sono inseriti. Si pensi alla differenza fra il mondo privo di vita e la nostra biosfera. E’ la stessa differenza che, sul piano del metodo scientifico, noi facciamo fra mero materialismo e materialismo naturalista. Si pensi a quanto ha cambiato il mondo, fisicamente, in maniera “visibile” agli occhi con le sue forme e i suoi colori, l’emergenza del regno vegetale. Vernadskij ritiene dunque che anche gli uomini, in quanto forza della natura, modificano l’ambiente che li circonda, con le loro case, palazzi, piazze, strade, ecc. Egli inventa per descrivere questo nuovo ambiente creato dagli uomini, questo nuovo pianeta, noosfera.
Torniamo all’umanità. Essa è un prodotto della natura e degli uomini, e gli uomini stessi sono un prodotto della natura, e la natura stessa è un prodotto dei soggetti-organismi che la formano. Questo ovviamente vale ad un livello meramente anatomico, con la nostra conformazione fisica, con lo sviluppo del cervello, ecc. Ma vale anche ad un livello “metafisico”. I nostri valori morali sono un prodotto della natura, come Darwin ci ha mostrato nell’Origine dell’uomo. Ad esempio il valore che ci impone di non accoppiarci fra con sanguigni è in primo luogo un prodotto della natura volto al rafforzamento genetico della specie. Il valore che ci impone di non uccidere altri essi umani è un prodotto della natura, anch’esso mirante alla conservazione della specie.
Più in generale, l’uomo animale sociale è un prodotto della natura. L’uomo è un animale sociale, come afferma Marx. Tale animale, come scopriva negli stessi anni Darwin, ha avuto uno sviluppo sociale molto semplicemente perché la nostra conformazione fisica ci impediva, a differenza di animali più forti (ad esempio il gorilla), di vivere da soli. Questo non perché vi sia una guida razionale della natura, ma semplicemente perché chi rimaneva solo veniva sbranato, non veniva curato, non trovava un partner con cui accoppiarsi e quindi non riproduceva la sua “attitudine” alla solitudine.
Ma da animale sociale è l’uomo è poi diventato, per citare Aristotele, un animale politico. In quanto animale sociale l’uomo ha dovuto cooperare con gli altri uomini, ha dovuto comunicare con loro, ha introdotto la scrittura, ha diviso il lavoro con gli altri. La società patriarcale è stata “recentemente” superata ed è diventata una società gerarchica, spesso sessista. Tale prodotto non è certo una forza innaturale, tutto proviene dalla natura. Anche il patriarcato è, in un certo senso, naturale. Ma ovviamente, come abbiamo già spiegato, esso non è necessario. Anzi gli uomini – in questo caso, le donne – come direbbe Hegel sono in grado di mettere il mondo “sulla testa”, di ribaltare la realtà. Quando lo sviluppo sociale è diventato uno sviluppo gerarchico, l’umanità è diventata la categoria degli animali politici. Oggi noi non possiamo fare a meno di fare politica, ogni nostro atto è un atto politico.
L’umanità è quindi il prodotto di questa dialettica. L’umanità non può rinnegare il suo legame con la natura, il fatto di essere un prodotto della natura. Lo si vede in tutto ciò che gli uomini fanno. Anche nelle cose più “innaturali”. Nella guerra vengono fatte le più straordinarie scoperte scientifiche perché nella guerra si fa più incalzante il problema naturale della sopravvivenza. Le rivoluzione esplodono quando le masse hanno fame, perché la fame – e quindi la lotta per la sopravvivenza – è una forza della natura, un motore della storia.
Nona ipotesi
La maggior parte dei mali dell’umanità, nella nostra epoca, derivano dalla sua organizzazione sociale
La nostra impostazione metodologica ci impedisce di innalzare a leggi universali le nostre ipotesi. E’ evidente, quindi, che non tutto è riducibile secondo criteri meramente “naturali” nel senso comune del termine. Vi è, innegabilmente, un salto qualitativo nella serie quantitativa – per usare un’espressione hegeliana. Così come la nostra analisi va oltre gli aspetti meramente materiali, per andare verso una concezione naturalistica della scienza, allo stesso modo dobbiamo avere la capacità di superare anche questa ipotesi quando lo si ritiene necessario. L’organizzazione sociale è uno degli elementi più importanti (si pensi alla noosfera di Vernadskij) nel determinare l’ambiente in cui viviamo e lottiamo. In questo siamo certamente più marxiani che darwiniani.
Siamo quindi ancora convinti, con Malatesta, che la maggior parte dei mali che colpiscono l’umanità dipendano dalla sua organizzazione sociale. Come dicevamo, c’è un salto qualitativo nella serie quantitativa, ma questo “salto” non rimuove gli elementi che lo hanno preceduto: ovviamente rimane assolutamente determinante il rapporto naturale con l’ambiente non-umano (si pensi alle siccità, alle crisi alimentari, ai terremoti, alle alluvioni, ecc), ma la nostra organizzazione sociale è ormai così avanzata, che appunto citando Malatesta possiamo dire che in ogni caso “la maggior parte” di questi mali derivano dalla nostra organizzazione sociale (nei periodi di siccità si possono dare vita a redistribuzioni dei beni, gli effetti dei terremoti sono attenuabili da un’architettura non speculativa, le alluvioni sono arginabili con un corretto rapporto con l’ambiente, ecc). Conclusione: nel 2011 la maggior parte dei mali sono mali sociali.
Non sono sociali solo i mali ambientali mal gestiti (appunto terremoti, alluvioni, ecc) ma ci sono dei mali, e sono i principali nel nostro grado di sviluppo orami assai avanzato, in sé e per sé sociali: lo sfruttamento, la guerra, la violenza. Marx scrive delle pagine che sono ancora di grande attualità per quanto riguarda la natura economica e materiale dello sfruttamento nella nostra “epoca economica-politica”, ovvero il periodo capitalista. Ha ragione quando dice che la storia dell’uomo è storia di lotta di classe, e da un punto di vista meno teorico e più tecnico, e nel merito delle questioni, buona parte dell’analisi marxiana dell’economia capitalistica è ancora di grande attualità.
Noi non abbiamo però Sacri Maestri da cui imparare e a cui ubbidire. Pensiamo che siano passati talmente tanti anni e che si siano sviluppate talmente tante ipotesi (si pensi solo sul piano storico i tentativi di instaurazione del socialismo falliti nello scorso secolo) da considerare i pensatori che andiamo a citare dei grandi compagni, e non delle autorità religiose.
I compagni e le compagne che compongono la Scuola Umbra vengono dai più diversi ambiti politici, teorici e filosofici: c’è chi ha subito il più severo ostracismo per aver osato criticare da marxista lo stesso Marx, chi viene dal movimento anarchico e ha pagato anche personalmente la propria militanza radicale, chi viene dagli studi di filosofia personali o accademici, chi viene dal sindacato e vuole leggere la realtà senza “paraocchi”, chi vieni dal movimento femminista ma è stanca dei dogmi che vi ha incontrato, ecc. Se abbiamo deciso di fare un passo avanti insieme non è certo per opportunismo o per disperazione; lo abbiamo fatto perché crediamo che il divenire della realtà imponga di aggiornare le nostre posizioni teoriche e di elaborarne di completamente nuove, senza sputare in faccia ai compagni del passato, ma senza glorificare e cristallizzare la loro posizione. Un tema per tutti può essere eminentemente significativo, l’ambiente. Il problema ambientale è sostanzialmente dimenticato dalla letteratura del movimento operaio, spesso anzi si è glorificata l’industrializzazione come forza positiva e redentrice. Noi crediamo che su questo tema vadano fatti importanti passi in avanti.
Decima ipotesi
La nostra impostazione metodologica ci impedisce di innalzare a leggi universali le nostre ipotesi. E’ evidente, quindi, che non tutto è riducibile secondo criteri meramente “naturali” nel senso comune del termine. Vi è, innegabilmente, un salto qualitativo nella serie quantitativa – per usare un’espressione hegeliana. Così come la nostra analisi va oltre gli aspetti meramente materiali, per andare verso una concezione naturalistica della scienza, allo stesso modo dobbiamo avere la capacità di superare anche questa ipotesi quando lo si ritiene necessario. L’organizzazione sociale è uno degli elementi più importanti (si pensi alla noosfera di Vernadskij) nel determinare l’ambiente in cui viviamo e lottiamo. In questo siamo certamente più marxiani che darwiniani.
Siamo quindi ancora convinti, con Malatesta, che la maggior parte dei mali che colpiscono l’umanità dipendano dalla sua organizzazione sociale. Come dicevamo, c’è un salto qualitativo nella serie quantitativa, ma questo “salto” non rimuove gli elementi che lo hanno preceduto: ovviamente rimane assolutamente determinante il rapporto naturale con l’ambiente non-umano (si pensi alle siccità, alle crisi alimentari, ai terremoti, alle alluvioni, ecc), ma la nostra organizzazione sociale è ormai così avanzata, che appunto citando Malatesta possiamo dire che in ogni caso “la maggior parte” di questi mali derivano dalla nostra organizzazione sociale (nei periodi di siccità si possono dare vita a redistribuzioni dei beni, gli effetti dei terremoti sono attenuabili da un’architettura non speculativa, le alluvioni sono arginabili con un corretto rapporto con l’ambiente, ecc). Conclusione: nel 2011 la maggior parte dei mali sono mali sociali.
Non sono sociali solo i mali ambientali mal gestiti (appunto terremoti, alluvioni, ecc) ma ci sono dei mali, e sono i principali nel nostro grado di sviluppo orami assai avanzato, in sé e per sé sociali: lo sfruttamento, la guerra, la violenza. Marx scrive delle pagine che sono ancora di grande attualità per quanto riguarda la natura economica e materiale dello sfruttamento nella nostra “epoca economica-politica”, ovvero il periodo capitalista. Ha ragione quando dice che la storia dell’uomo è storia di lotta di classe, e da un punto di vista meno teorico e più tecnico, e nel merito delle questioni, buona parte dell’analisi marxiana dell’economia capitalistica è ancora di grande attualità.
Noi non abbiamo però Sacri Maestri da cui imparare e a cui ubbidire. Pensiamo che siano passati talmente tanti anni e che si siano sviluppate talmente tante ipotesi (si pensi solo sul piano storico i tentativi di instaurazione del socialismo falliti nello scorso secolo) da considerare i pensatori che andiamo a citare dei grandi compagni, e non delle autorità religiose.
I compagni e le compagne che compongono la Scuola Umbra vengono dai più diversi ambiti politici, teorici e filosofici: c’è chi ha subito il più severo ostracismo per aver osato criticare da marxista lo stesso Marx, chi viene dal movimento anarchico e ha pagato anche personalmente la propria militanza radicale, chi viene dagli studi di filosofia personali o accademici, chi viene dal sindacato e vuole leggere la realtà senza “paraocchi”, chi vieni dal movimento femminista ma è stanca dei dogmi che vi ha incontrato, ecc. Se abbiamo deciso di fare un passo avanti insieme non è certo per opportunismo o per disperazione; lo abbiamo fatto perché crediamo che il divenire della realtà imponga di aggiornare le nostre posizioni teoriche e di elaborarne di completamente nuove, senza sputare in faccia ai compagni del passato, ma senza glorificare e cristallizzare la loro posizione. Un tema per tutti può essere eminentemente significativo, l’ambiente. Il problema ambientale è sostanzialmente dimenticato dalla letteratura del movimento operaio, spesso anzi si è glorificata l’industrializzazione come forza positiva e redentrice. Noi crediamo che su questo tema vadano fatti importanti passi in avanti.
Decima ipotesi
Lotta di classe e lotta per la sopravvivenza
Nonostante vi siano differenze quantitative fra l’ambiente della savana in cui il leone cerca di mangiarsi la gazzella e l’ambiente di lavoro, in cui l’operaio viene mangiato dalle macchine, vi sono però comunque dei chiari elementi riconducibili alla lotta per la sopravvivenza.
Innanzi tutto si lavora per vivere. Se vendiamo parte del nostro tempo, dei nostri muscoli, del nostro cervello, dei nostri studi, delle nostre abilità tecniche e manuali a un padrone, è perché questi ci dia di che mangiare in primis. In secundis perché la qualità della nostra vita (sanità, svaghi, indumenti, ecc) migliori o comunque si conservi in condizioni decenti. Lavoriamo quindi per vivere, veniamo sfruttati e accettiamo tale condizione per lottare contro la morte, contro la fame, contro la miseria. La lotta di classe nasce perché vi è una lotta per la sopravvivenza, perché per combattere tale battaglia per la vita ci si divide il lavoro.
In secondo luogo, vi è uno sterminio di classe da parte delle classi dominanti a danno degli oppressi. Tale sterminio è empiricamente riconoscibile nelle migliaia di morti che ogni anno si verificano sui luoghi di lavoro, nella prigionia dei poveri nelle galere e nei lager per immigrati, nei milioni di disperati lasciati morire di fame nel mondo povero, nelle navi di immigrati affondate, negli omicidi di proletari che la polizia compie ogni giorno nelle grandi metropoli. Tale sterminio avviene perché i padroni ci odiano, ci vogliono vedere morti: ci disprezzano se siamo immigrati e ci imprigionano per questa condizione; li disgustiamo quando siamo costretti a raccogliere qualcosa da mangiare nei cassonetti della spazzatura e ci puniscono per questa misera attività; gli facciamo ribrezzo anche quando ci umiliamo a chiedere l’elemosina e chiamano la polizia per farci portare via, lontano dai loro occhi e dalle loro strade; ci odiano quando lavoriamo per loro, pur avendo bisogno di noi ci temono, ci sorvegliano, ci licenziano appena trovano schiavi più mansueti o meno costosi, ci ammazzano o ci feriscono gravemente sotto le loro macchine; ci picchiano, ci sparano e ci imprigionano quando scendiamo in piazza a manifestare, a protestare contro la miseria in cui ci hanno relegato, a ricordagli che esistiamo. La lotta contro tale sterminio, la lotta rivoluzionaria, è una lotta per la sopravvivenza.
Non dobbiamo però dimenticare che loro, i padroni, hanno bisogno di noi. Il leone non vuole uccidere tutte le gazzelle del mondo. I popoli che hanno un rapporto più sincero con la natura sanno che non devono depredare tutte le sue risorse: si pensi agli indigeni nord-americani che cacciavano per il nutrimento e il vestiario i bufali, ma al contempo li rispettavano, li veneravano, sapevano che non dovevano ucciderli tutti. Il padrone ha quindi bisogno di mani e braccia operaie da spezzare sotto le loro presse, ha bisogno di occhi da consumare sui computer dei suoi uffici, di carne da macello per scavare pozzi petroliferi, di immigrati che non finiscano nei lager per lavorare i suoi campi; non vuole che noi finiamo tutti, come il leone non vuole la scomparsa di tutte le gazzelle.
Il fatto che gli oppressori abbiano bisogno di oppressi, si badi bene, non elimina il rapporto naturale di lotta per la sopravvivenza nella lotta di classe. Non è una consolazione per la gazzella che viene inseguita dal leone sapere che questi non vuole la scomparsa di tutta la sua specie, ma vuole mangiarsi solo lei. Lei continua a correre, ad elaborare strategie per sopravvivere; da tale elaborazione deriva la sua evoluzione, la sua rivoluzione. Allo stesso modo non è una consolazione per ogni singolo oppresso della terra sapere che i padroni non vogliono che scompaiano tutti i suoi compagni, che tutti si spezzino le dita delle mani in fabbrica, o che tutti vengano arrestati e ammazzati dalla polizia; non è una consolazione sapere che sei proprio tu quello che deve mettere un dito per il suo profitto, che devi essere arrestato, che ti devi beccare la pallottola in fronte quando vai in piazza. Per questo la lotta di classe è lotta per la sopravvivenza.
C’è uno sterminio di classe in atto. I morti sul lavoro non sono tragiche fatalità, ma una vera e propria opera di pulizia etnica. Dobbiamo in primo luogo cercare di sopravvivere, di resistere. Dobbiamo trovare dunque delle pratiche di lotta che non ci portino alla distruzione, che riescano ad evadere la repressione. In secondo luogo dobbiamo attaccare, dobbiamo uscire dalla nostra condizione di prede, di oppressione; dobbiamo fare la rivoluzione. Dobbiamo evolverci.
Undicesima ipotesi
Nonostante vi siano differenze quantitative fra l’ambiente della savana in cui il leone cerca di mangiarsi la gazzella e l’ambiente di lavoro, in cui l’operaio viene mangiato dalle macchine, vi sono però comunque dei chiari elementi riconducibili alla lotta per la sopravvivenza.
Innanzi tutto si lavora per vivere. Se vendiamo parte del nostro tempo, dei nostri muscoli, del nostro cervello, dei nostri studi, delle nostre abilità tecniche e manuali a un padrone, è perché questi ci dia di che mangiare in primis. In secundis perché la qualità della nostra vita (sanità, svaghi, indumenti, ecc) migliori o comunque si conservi in condizioni decenti. Lavoriamo quindi per vivere, veniamo sfruttati e accettiamo tale condizione per lottare contro la morte, contro la fame, contro la miseria. La lotta di classe nasce perché vi è una lotta per la sopravvivenza, perché per combattere tale battaglia per la vita ci si divide il lavoro.
In secondo luogo, vi è uno sterminio di classe da parte delle classi dominanti a danno degli oppressi. Tale sterminio è empiricamente riconoscibile nelle migliaia di morti che ogni anno si verificano sui luoghi di lavoro, nella prigionia dei poveri nelle galere e nei lager per immigrati, nei milioni di disperati lasciati morire di fame nel mondo povero, nelle navi di immigrati affondate, negli omicidi di proletari che la polizia compie ogni giorno nelle grandi metropoli. Tale sterminio avviene perché i padroni ci odiano, ci vogliono vedere morti: ci disprezzano se siamo immigrati e ci imprigionano per questa condizione; li disgustiamo quando siamo costretti a raccogliere qualcosa da mangiare nei cassonetti della spazzatura e ci puniscono per questa misera attività; gli facciamo ribrezzo anche quando ci umiliamo a chiedere l’elemosina e chiamano la polizia per farci portare via, lontano dai loro occhi e dalle loro strade; ci odiano quando lavoriamo per loro, pur avendo bisogno di noi ci temono, ci sorvegliano, ci licenziano appena trovano schiavi più mansueti o meno costosi, ci ammazzano o ci feriscono gravemente sotto le loro macchine; ci picchiano, ci sparano e ci imprigionano quando scendiamo in piazza a manifestare, a protestare contro la miseria in cui ci hanno relegato, a ricordagli che esistiamo. La lotta contro tale sterminio, la lotta rivoluzionaria, è una lotta per la sopravvivenza.
Non dobbiamo però dimenticare che loro, i padroni, hanno bisogno di noi. Il leone non vuole uccidere tutte le gazzelle del mondo. I popoli che hanno un rapporto più sincero con la natura sanno che non devono depredare tutte le sue risorse: si pensi agli indigeni nord-americani che cacciavano per il nutrimento e il vestiario i bufali, ma al contempo li rispettavano, li veneravano, sapevano che non dovevano ucciderli tutti. Il padrone ha quindi bisogno di mani e braccia operaie da spezzare sotto le loro presse, ha bisogno di occhi da consumare sui computer dei suoi uffici, di carne da macello per scavare pozzi petroliferi, di immigrati che non finiscano nei lager per lavorare i suoi campi; non vuole che noi finiamo tutti, come il leone non vuole la scomparsa di tutte le gazzelle.
Il fatto che gli oppressori abbiano bisogno di oppressi, si badi bene, non elimina il rapporto naturale di lotta per la sopravvivenza nella lotta di classe. Non è una consolazione per la gazzella che viene inseguita dal leone sapere che questi non vuole la scomparsa di tutta la sua specie, ma vuole mangiarsi solo lei. Lei continua a correre, ad elaborare strategie per sopravvivere; da tale elaborazione deriva la sua evoluzione, la sua rivoluzione. Allo stesso modo non è una consolazione per ogni singolo oppresso della terra sapere che i padroni non vogliono che scompaiano tutti i suoi compagni, che tutti si spezzino le dita delle mani in fabbrica, o che tutti vengano arrestati e ammazzati dalla polizia; non è una consolazione sapere che sei proprio tu quello che deve mettere un dito per il suo profitto, che devi essere arrestato, che ti devi beccare la pallottola in fronte quando vai in piazza. Per questo la lotta di classe è lotta per la sopravvivenza.
C’è uno sterminio di classe in atto. I morti sul lavoro non sono tragiche fatalità, ma una vera e propria opera di pulizia etnica. Dobbiamo in primo luogo cercare di sopravvivere, di resistere. Dobbiamo trovare dunque delle pratiche di lotta che non ci portino alla distruzione, che riescano ad evadere la repressione. In secondo luogo dobbiamo attaccare, dobbiamo uscire dalla nostra condizione di prede, di oppressione; dobbiamo fare la rivoluzione. Dobbiamo evolverci.
Undicesima ipotesi
Ecologia e lotta per la sopravvivenza
Il problema ambientale è probabilmente il problema che è stato più trascurato dalla letteratura rivoluzionaria classica. Siamo convinti che le ipotesi della Scuola Umbra forniscano la base per una approfondita teorizzazione del problema. Esse ci danno l’imput teorico per rispondere a tre importanti domande che molti compagni si pongono e a cui non sanno rispondere:
1) Perché è così importante il problema ambientale?
2) Perché l’ecologia è un tema così trasversale e interclassista?
3) Perché il movimento rivoluzionario si trova in difficoltà di fronte a tale problema?
Il problema ambientale è così importante perché per la prima volta dai tempi dell’ultima glaciazione l’umanità si trova di fronte alla possibilità della sua estinzione. La lotta per la difesa dell’ambiente non è come la lotta per la sopravvivenza individuale di cui abbiamo parlato nella trattazione dell’ipotesi nel precedente paragrafo. La lotta per la difesa dell’ambiente è diventata una lotta dell’intera umanità. E’ l’intera specie che è a rischio estinzione. E’ un problema dunque che scuote l’intero “spirito dell’umanità”, la sua coscienza, la sua mente. C’è ovviamente anche una lotta individuale contro l’inquinamento, per una vita migliore, più lunga, meno soggetta a malattie. Ma in questo caso c’è anche il pericolo per l’estinzione dell’intera specie.
L’ecologia è un tema così trasversale che attraversa i partiti e le classi proprio perché è un problema “di specie” e non un problema “di classe”. Essendo un problema dell’intera specie, esso attraversa l’umanità senza distinzioni di ricchezza, di appartenenza ideologica, di provenienza politica. E’ una cosa che molti di noi hanno sperimentato direttamente quando hanno militato in gruppi ecologisti in Umbria e non solo. Ma attenzione, anche se l’inquinamento è un problema di specie questo non significa che è una forza esterna alla specie che ci mette in pericolo. A differenza che in epoca glaciale, l’umanità non si trova di fronte ad una minaccia della “natura” (nel senso comune del termine, perché ovviamente tutto è natura), ma ad un male che viene dal suo interno. Il nodo del problema si scioglie: il problema ambientale è un problema di specie, ma è un problema che una classe ha imposto all’intera specie per i suoi biechi interessi economici.
Siamo dunque giunti al ruolo del movimento rivoluzionario. Le sue difficoltà sono in primo luogo teoriche. L’esaltazione dell’industrializzazione che è stata fatta a partire da Marx, mal si concilia a nostro avviso con il problema ambientale. Tali difficoltà si riscontrano anche nella nostra azione politica quotidiana: spesso ci capita di militare in gruppi ecologisti che hanno radicali posizioni sulle tematiche ambientali, che difendono un bosco che deve venire abbattuto, ma poi sono sostenitori dello sfruttamento verso gli uomini, sono fiancheggiatori delle guerre imperialiste, vanno a votare e a volte perfino per forze reazionarie. Il nostro compito deve essere quindi di raccogliere questo spirito interclassista e dell’intera specie umana contro l’inquinamento, per indirizzarlo verso la denuncia del ruolo che i padroni e lo stato hanno nella devastazione ambientale e nel saccheggio del territorio. Innanzi tutto bisogna insorgere contro la più grande delle ingiustizie: una casta di distruttori, saccheggiatori, devastatori e inquinatori che impone all’intera specie un peggioramento radicale della propria salute, mettendo in pericolo la vita forse dell’intera comunità umana.
Se il marxismo ha incontrato delle difficoltà teoriche, dall’altro lato l’anarchismo – forse proprio perché ha trovato meno difficoltà – si è disperso su posizioni teoriche spesso contrastanti e contraddittorie (fra di loro e in sé stesse). Da una parte, abbiamo le posizioni ortodosse sempre più minoritarie che considerano ancora l’industrializzazione come fattore positivo; posizioni se vogliamo più simili a quelle del movimento operaio classico e al marxismo in particolare. Dall’altra parte, abbiamo invece assistito alla crescita progressiva del cosiddetto anarco-primitivismo con un proliferare di scritti, riviste, gruppi più o meno organizzati ma sempre più diffusi in Europa e America (dal nord al sud del continente); per non parlare della diffusione sempre più massiccia – dal Cile al Canada, dall’Italia all’Inghilterra – di azioni dirette, sabotaggi, attentati di natura animalista ed ecologista. Ma anche tale posizione non è priva di contraddizioni. Ci riferiamo, per semplicità, al pensiero di Zerzan. Innanzi tutto come si spiega l’emergenza della civilizzazione? Come può dalla natura provenire qualcosa di innaturale? Qui non siamo più di fronte al naturalismo, ma di fronte ad un problema ontologico che farebbe arrabbiare persino Parmenide: come può da ciò che è emergere qualcosa di diverso? Le possibili risposte sono due e nessuna delle due piace né a noi né immaginiamo ai compagni primitivisti: o si ammette che l’uomo è qualcosa di innaturale, di magico, di spirituale e quindi ha una giustificazione divina del suo essere un danneggiatore della natura; oppure si deve riconoscere che l’uomo è un essere naturale e quello che egli fa è assolutamente naturale ed è necessario che lo faccia. In ogni caso ci troveremo di fronte ad una posizione che non solo è anti-primitivista, ma addirittura anti-ecologista. Una posizione che neanche noi accettiamo. Ma come risponde il primitivismo a questa contraddizione? Semplicemente non risponde. La Scuola Umbra invece crede di avere alcune ipotesi per uscire dal dilemma: ciò che è naturale non è necessario; l’uomo è un essere naturale, ma come tale fa ipotesi, è libero di agire in un modo o in un altro, di elaborare delle strategie per sopravvivere; una di queste ipotesi può essere quella di modificare il proprio modo di produzione, sia per ragioni di sfruttamento che per ragioni ecologiche. Questo non significa tornare indietro, fino all’età della pietra. Questo significa andare avanti, costruire insieme un’era nuova, post-industriale e post-capistalista; anzi anti-capitalista e perfino anti-industriale se vogliamo, ma qualcosa di altro, non un’ipotesi già fatta e già scartata dai nostri antenati.
Dodicesima ipotesi
Il problema ambientale è probabilmente il problema che è stato più trascurato dalla letteratura rivoluzionaria classica. Siamo convinti che le ipotesi della Scuola Umbra forniscano la base per una approfondita teorizzazione del problema. Esse ci danno l’imput teorico per rispondere a tre importanti domande che molti compagni si pongono e a cui non sanno rispondere:
1) Perché è così importante il problema ambientale?
2) Perché l’ecologia è un tema così trasversale e interclassista?
3) Perché il movimento rivoluzionario si trova in difficoltà di fronte a tale problema?
Il problema ambientale è così importante perché per la prima volta dai tempi dell’ultima glaciazione l’umanità si trova di fronte alla possibilità della sua estinzione. La lotta per la difesa dell’ambiente non è come la lotta per la sopravvivenza individuale di cui abbiamo parlato nella trattazione dell’ipotesi nel precedente paragrafo. La lotta per la difesa dell’ambiente è diventata una lotta dell’intera umanità. E’ l’intera specie che è a rischio estinzione. E’ un problema dunque che scuote l’intero “spirito dell’umanità”, la sua coscienza, la sua mente. C’è ovviamente anche una lotta individuale contro l’inquinamento, per una vita migliore, più lunga, meno soggetta a malattie. Ma in questo caso c’è anche il pericolo per l’estinzione dell’intera specie.
L’ecologia è un tema così trasversale che attraversa i partiti e le classi proprio perché è un problema “di specie” e non un problema “di classe”. Essendo un problema dell’intera specie, esso attraversa l’umanità senza distinzioni di ricchezza, di appartenenza ideologica, di provenienza politica. E’ una cosa che molti di noi hanno sperimentato direttamente quando hanno militato in gruppi ecologisti in Umbria e non solo. Ma attenzione, anche se l’inquinamento è un problema di specie questo non significa che è una forza esterna alla specie che ci mette in pericolo. A differenza che in epoca glaciale, l’umanità non si trova di fronte ad una minaccia della “natura” (nel senso comune del termine, perché ovviamente tutto è natura), ma ad un male che viene dal suo interno. Il nodo del problema si scioglie: il problema ambientale è un problema di specie, ma è un problema che una classe ha imposto all’intera specie per i suoi biechi interessi economici.
Siamo dunque giunti al ruolo del movimento rivoluzionario. Le sue difficoltà sono in primo luogo teoriche. L’esaltazione dell’industrializzazione che è stata fatta a partire da Marx, mal si concilia a nostro avviso con il problema ambientale. Tali difficoltà si riscontrano anche nella nostra azione politica quotidiana: spesso ci capita di militare in gruppi ecologisti che hanno radicali posizioni sulle tematiche ambientali, che difendono un bosco che deve venire abbattuto, ma poi sono sostenitori dello sfruttamento verso gli uomini, sono fiancheggiatori delle guerre imperialiste, vanno a votare e a volte perfino per forze reazionarie. Il nostro compito deve essere quindi di raccogliere questo spirito interclassista e dell’intera specie umana contro l’inquinamento, per indirizzarlo verso la denuncia del ruolo che i padroni e lo stato hanno nella devastazione ambientale e nel saccheggio del territorio. Innanzi tutto bisogna insorgere contro la più grande delle ingiustizie: una casta di distruttori, saccheggiatori, devastatori e inquinatori che impone all’intera specie un peggioramento radicale della propria salute, mettendo in pericolo la vita forse dell’intera comunità umana.
Se il marxismo ha incontrato delle difficoltà teoriche, dall’altro lato l’anarchismo – forse proprio perché ha trovato meno difficoltà – si è disperso su posizioni teoriche spesso contrastanti e contraddittorie (fra di loro e in sé stesse). Da una parte, abbiamo le posizioni ortodosse sempre più minoritarie che considerano ancora l’industrializzazione come fattore positivo; posizioni se vogliamo più simili a quelle del movimento operaio classico e al marxismo in particolare. Dall’altra parte, abbiamo invece assistito alla crescita progressiva del cosiddetto anarco-primitivismo con un proliferare di scritti, riviste, gruppi più o meno organizzati ma sempre più diffusi in Europa e America (dal nord al sud del continente); per non parlare della diffusione sempre più massiccia – dal Cile al Canada, dall’Italia all’Inghilterra – di azioni dirette, sabotaggi, attentati di natura animalista ed ecologista. Ma anche tale posizione non è priva di contraddizioni. Ci riferiamo, per semplicità, al pensiero di Zerzan. Innanzi tutto come si spiega l’emergenza della civilizzazione? Come può dalla natura provenire qualcosa di innaturale? Qui non siamo più di fronte al naturalismo, ma di fronte ad un problema ontologico che farebbe arrabbiare persino Parmenide: come può da ciò che è emergere qualcosa di diverso? Le possibili risposte sono due e nessuna delle due piace né a noi né immaginiamo ai compagni primitivisti: o si ammette che l’uomo è qualcosa di innaturale, di magico, di spirituale e quindi ha una giustificazione divina del suo essere un danneggiatore della natura; oppure si deve riconoscere che l’uomo è un essere naturale e quello che egli fa è assolutamente naturale ed è necessario che lo faccia. In ogni caso ci troveremo di fronte ad una posizione che non solo è anti-primitivista, ma addirittura anti-ecologista. Una posizione che neanche noi accettiamo. Ma come risponde il primitivismo a questa contraddizione? Semplicemente non risponde. La Scuola Umbra invece crede di avere alcune ipotesi per uscire dal dilemma: ciò che è naturale non è necessario; l’uomo è un essere naturale, ma come tale fa ipotesi, è libero di agire in un modo o in un altro, di elaborare delle strategie per sopravvivere; una di queste ipotesi può essere quella di modificare il proprio modo di produzione, sia per ragioni di sfruttamento che per ragioni ecologiche. Questo non significa tornare indietro, fino all’età della pietra. Questo significa andare avanti, costruire insieme un’era nuova, post-industriale e post-capistalista; anzi anti-capitalista e perfino anti-industriale se vogliamo, ma qualcosa di altro, non un’ipotesi già fatta e già scartata dai nostri antenati.
Dodicesima ipotesi
L’istinto della guerra e l’istinto della pace nella biologia umana
Quanto appena affermato ci permette di spiegare un altro elemento di apparente contraddizione: come per l’ambientalismo, infatti, anche nel movimento pacifista si incontra una certa trasversalità interclassista.
Questo fenomeno può essere spiegato con ragioni meramente biologiche. Come il tema dell’inquinamento e della distruzione del pianeta, anche nel problema della guerra emerge un istinto sociale pre-razionale legato al più grave problema della sopravvivenza non solo individuale ma addirittura dell’intera specie. Nella guerre moderne ci sono strumenti in grado di provocare l’estinzione dell’intera specie dell’Homo Sapiens e di molte altre.
Questo ci spiega come mai emerge un istinto interclassista e politicamente trasversale sia nei movimenti ambientalisti sia in quelli pacifisti. La risposta che abbiamo dato nel caso del problema ambientale a nostro avviso vale anche qui. L’intervento rivoluzionario deve denunciare che la guerra – così come l’inquinamento – è si un problema di specie, ma è un problema che una classe ha provocato all’intera specie. Questo vale sia per la guerra fra le potenze imperialiste sia per la guerre rivoluzionarie o di liberazione: anche in questo caso la causa della guerra è dei padroni che sfruttano, opprimono e ci costringono ad insorgere.
Capire ciò è essenziale per l’intervento rivoluzionario: basti pensare alla Rivoluzione Russa.
Tredicesima ipotesi
Quanto appena affermato ci permette di spiegare un altro elemento di apparente contraddizione: come per l’ambientalismo, infatti, anche nel movimento pacifista si incontra una certa trasversalità interclassista.
Questo fenomeno può essere spiegato con ragioni meramente biologiche. Come il tema dell’inquinamento e della distruzione del pianeta, anche nel problema della guerra emerge un istinto sociale pre-razionale legato al più grave problema della sopravvivenza non solo individuale ma addirittura dell’intera specie. Nella guerre moderne ci sono strumenti in grado di provocare l’estinzione dell’intera specie dell’Homo Sapiens e di molte altre.
Questo ci spiega come mai emerge un istinto interclassista e politicamente trasversale sia nei movimenti ambientalisti sia in quelli pacifisti. La risposta che abbiamo dato nel caso del problema ambientale a nostro avviso vale anche qui. L’intervento rivoluzionario deve denunciare che la guerra – così come l’inquinamento – è si un problema di specie, ma è un problema che una classe ha provocato all’intera specie. Questo vale sia per la guerra fra le potenze imperialiste sia per la guerre rivoluzionarie o di liberazione: anche in questo caso la causa della guerra è dei padroni che sfruttano, opprimono e ci costringono ad insorgere.
Capire ciò è essenziale per l’intervento rivoluzionario: basti pensare alla Rivoluzione Russa.
Tredicesima ipotesi
Cosa salvare, cosa distruggere
Le ultime righe del paragrafo dedicato al problema ambientale ci portano nel pieno di un nuovo problema, che richiederà una nuova ipotesi per essere risolto. Cosa salvare? Cosa distruggere?
Secondo il movimento rivoluzionario classico tutto va salvato, bisogna riappropriarci degli strumenti di produzione e gestirli collettivamente. Punto. Abbiamo visto a quali contraddizioni ha portato tale ipotesi; a partire dalle difficoltà teoriche in ambito ambientalista. Al contrario, secondo il primitivismo nulla va salvato e tutto va distrutto, non c’è un solo prodotto di questa società che può essere riciclato nella società rivoluzionaria.
Crediamo che un’interessante risposta la fornisce Bonanno, quando ci dice che bisogna superare l’idea positivista e progressista di un uso giusto e migliore degli strumenti del potere: ci sono delle cose che non possono essere salvate, che non possono avere altri ruoli se non quello dell’oppressione per chi sono state fabbricate. Questo non significa che però tutto vada distrutto. Ognuno di noi dorme senz’altro meglio sul proprio letto che in una caverna, e non riusciamo a spiegarci perché i materassi non debbano essere salvati dalla rivoluzione.
Un’idea diametralmente opposta a quella primitivista, ma che proviene comunque da una scuola teorica nuova rispetto all’ortodossia rivoluzionaria (e che per questo stimiamo, pur non condividendo nel merito) è quella di Toni Negri e del movimento che da pochi anni (pochissimi per la storia della filosofia, ere geologiche per i ritmi della politica) ha diffuso la moda di sostituire la parola “moltitudini” alla parola “proletariato”, che ha diffuso nei movimenti antagonisti il concetto cartesiano di “cognitivismo” ed altri interessanti quanto bizzarre rivoluzioni semantiche. Secondo tale movimento, esattamente l’opposto di quanto ritiene il primitivismo, tutto va salvato, tutto è rivoluzionario, tutto marcia gloriosamente verso la liberazione dell’umanità: internet, l’economia finanziaria, le nuove tecnologie, le scienze cognitive…tutte queste belle cose nuove sono state mandate dalla Spirito della Storia per salvarci. A nostro avviso questo movimento nasce sullo studio errato del “peggior Marx”, quello più hegeliano e meno materialista (se né è mai esistito uno o se non è solo un’invenzione dossografica della critica letteraria), quello della rivoluzione come necessità storica, dell’economia come processo dialettico e meccanico di dispiegamento e di rivoluzione.
Le basi su cui nasce questo movimento sono assolutamente rispettabili (d'altronde lo stesso vale anche per il primitivismo e per tutti quelli che non rimangono ancorati dogmaticamente alle teorie del passato). Rispettiamo la tensione verso la costruzione di un pensiero nuovo, adeguato ai nostri giorni, fuori dei dogmi e dall’ipse dixit dei Sacri Maestri. Questo però non significa sprofondare nel nuovismo, nell’eccitazione infantile verso ogni moda della borghesia come fosse lo strumento più rivoluzionario di tutti i tempi. Un caso emblematico è rappresentato da internet: scoppiano le rivoluzioni in medio oriente e la sola cosa che sanno vedere è l’uso dei social network come strumento di redenzione – dimenticando la fame, lo sfruttamento coloniale, il ruolo della crisi economica, il laboratorio ideologico che producono e hanno prodotto quei popoli in armi. E’ come dire che il merito della rivoluzione francese è della ghigliottina e non piuttosto che questa è stato uno strumento per tagliare la testa al Re; strumento di un movimento che ha prodotto una cultura e una ideologia, che aveva fame di pane e di libertà. Lo strumento diventa il fine. L’obbiettivo non è più fare la rivoluzione, l’obbiettivo è farla su internet. E’ evidente che questo movimento non accetterebbe mai l’idea insurrezionalista che non tutto può essere salvato ma ci sono mezzi da distruggere, e meno che mai l’idea primitivista che tutto vada distrutto. Andrebbero subito in crisi d’astinenza per mancanza di Facebook: per la disperazione si romperebbero la testa contro le pareti delle caverne. Anche se qualcuno potrebbe dire, citando ironicamente le nostre tesi naturaliste, che anche questa è selezione naturale.
Il fatto che tutto va salvato e che tutto marcia verso il progresso (soprattutto le cose nuove e alla moda nei supermercati della borghesia occidentale: esilaranti sono le laudi decantate in onore del web 2.0) lo si vede nel loro concetto di economia finanziaria e nello speculare movimento per il reddito minimo garantito. Su questo Marx è ancora attuale: noi siamo certi che il valore viene dal lavoro, di conseguenza il profitto viene da una parte del plusvalore ottenuto costringendo il lavoratore ad effettuare un surplus di lavoro. Questi concetti possono sembrare difficili, ma sono esprimibili anche attraverso evidenze empiriche assolutamente semplici. Il capitale che viene giocato in borsa non nasce dal nulla (come ritengono concordi negriani e liberisti). I titoli della FIAT salgono perché la compagnia distribuisce agli azionisti i dividendi prodotti con lo sfruttamento, la riduzione delle pause, la cassa integrazione dei lavoratori. Gli azionisti che comprano titoli di case di indumenti ricevono profitto perché ci sono dei bambini che cuciono scarpe e maglioni per meno di un dollaro al giorno in Asia.
Molti di questi processi sono oscuri anche alla maggior parte dei capitalisti. La maggior parte dei capitalisti finanziari dei nostri tempi sono degli ignoranti senza dignità, gente che ha grandi intuizioni economico-algortmiche, che intuiscono dunque come vanno i titoli in borsa e che di conseguenza investono e traggono profitto dai loro investimenti. La cosa davvero drammatica è che a questa ideologia magico-hegeliana del denaro che compare dal nulla, credono anche alcuni nostri vecchi compagni. L’idea del reddito garantito si fonda proprio su questa menzogna: l’idea che tassando chi gioca in borsa si possono trovare ricchezze sufficienti per dare un salario a tutti. Questo punto è teorizzato molto precisamente dai cosiddetti “negriani” per i quali ormai il problema non è più nella produzione delle ricchezze, ma nella loro distribuzione – ribaltando il vecchio adagio di Marx che sosteneva precisamente il contrario. Come dicevamo l’ultima moda della borghesia, dal web 2.0 all’economia finanziaria, diventa paradigma epocale per questa scuola filosofica.
Anche se ribaltano le geniali intuizioni economiche di Marx, alla base di questa scuola vi è comunque un certo marxismo volgare che tanto piaceva in passato alla socialdemocrazia e che si fonda su due assiomi: 1) il mito del progresso; 2) il mito della redistribuzione dei frutti del progresso. Loro sostengo – lo scolarca in maniera più velata, gli scolari in maniera più grezza ma per questo spesso più comprensibile – che come in passato si lottava per redistribuire le ricchezze prodotte dalle industrie e di cui si appropriavano solo i padroni, oggi bisogna lottare per distribuire equamente le ricchezze prodotte dal web 2.0 e da altre diavolerie informatiche accumulate dall’Impero (questa entità romanzesca) da noi consumatori quando ci scarichiamo un porno o copriamo una lavatrice su e-bay. Poiché non c’è più il capitalismo ma il biocapitalismo, anche noi vogliamo un bioreddito, per il solo fatto di esistere, di consumare, di mandare sms che riempiono le casse della vodafon, di fumare sigarette che fanno crescere i titoli della Malboro.
Non vi è nulla di più vergognoso che assecondare questa richiesta borghese, questa protesta per il diritto di essere tutti borghesi. Poiché i titoli in borsa non salgono per il fatto che noi esistiamo come entità biologiche, ma perché ci sono altri organismi biologici di 12 anni che cuciono scarpe per la Nike, chiedere una tassa sulla borsa da dividere per un salario garantito è come chiedere una percentuale sullo sfruttamento che viene fatto nel Sud del mondo per il solo fatto che noi siamo cittadini del Nord. Ecco perché parlano di bioreddito!
A proposito di ciò che va distrutto e di ciò che va salvato: la borsa è certamente la prima cosa che va distrutta, abbattuta e puniti i suoi criminali. Non vogliamo che i broker ci paghino una percentuale dei loro profitti, li vogliamo fucilare.
Quattordicesima ipotesi
Le ultime righe del paragrafo dedicato al problema ambientale ci portano nel pieno di un nuovo problema, che richiederà una nuova ipotesi per essere risolto. Cosa salvare? Cosa distruggere?
Secondo il movimento rivoluzionario classico tutto va salvato, bisogna riappropriarci degli strumenti di produzione e gestirli collettivamente. Punto. Abbiamo visto a quali contraddizioni ha portato tale ipotesi; a partire dalle difficoltà teoriche in ambito ambientalista. Al contrario, secondo il primitivismo nulla va salvato e tutto va distrutto, non c’è un solo prodotto di questa società che può essere riciclato nella società rivoluzionaria.
Crediamo che un’interessante risposta la fornisce Bonanno, quando ci dice che bisogna superare l’idea positivista e progressista di un uso giusto e migliore degli strumenti del potere: ci sono delle cose che non possono essere salvate, che non possono avere altri ruoli se non quello dell’oppressione per chi sono state fabbricate. Questo non significa che però tutto vada distrutto. Ognuno di noi dorme senz’altro meglio sul proprio letto che in una caverna, e non riusciamo a spiegarci perché i materassi non debbano essere salvati dalla rivoluzione.
Un’idea diametralmente opposta a quella primitivista, ma che proviene comunque da una scuola teorica nuova rispetto all’ortodossia rivoluzionaria (e che per questo stimiamo, pur non condividendo nel merito) è quella di Toni Negri e del movimento che da pochi anni (pochissimi per la storia della filosofia, ere geologiche per i ritmi della politica) ha diffuso la moda di sostituire la parola “moltitudini” alla parola “proletariato”, che ha diffuso nei movimenti antagonisti il concetto cartesiano di “cognitivismo” ed altri interessanti quanto bizzarre rivoluzioni semantiche. Secondo tale movimento, esattamente l’opposto di quanto ritiene il primitivismo, tutto va salvato, tutto è rivoluzionario, tutto marcia gloriosamente verso la liberazione dell’umanità: internet, l’economia finanziaria, le nuove tecnologie, le scienze cognitive…tutte queste belle cose nuove sono state mandate dalla Spirito della Storia per salvarci. A nostro avviso questo movimento nasce sullo studio errato del “peggior Marx”, quello più hegeliano e meno materialista (se né è mai esistito uno o se non è solo un’invenzione dossografica della critica letteraria), quello della rivoluzione come necessità storica, dell’economia come processo dialettico e meccanico di dispiegamento e di rivoluzione.
Le basi su cui nasce questo movimento sono assolutamente rispettabili (d'altronde lo stesso vale anche per il primitivismo e per tutti quelli che non rimangono ancorati dogmaticamente alle teorie del passato). Rispettiamo la tensione verso la costruzione di un pensiero nuovo, adeguato ai nostri giorni, fuori dei dogmi e dall’ipse dixit dei Sacri Maestri. Questo però non significa sprofondare nel nuovismo, nell’eccitazione infantile verso ogni moda della borghesia come fosse lo strumento più rivoluzionario di tutti i tempi. Un caso emblematico è rappresentato da internet: scoppiano le rivoluzioni in medio oriente e la sola cosa che sanno vedere è l’uso dei social network come strumento di redenzione – dimenticando la fame, lo sfruttamento coloniale, il ruolo della crisi economica, il laboratorio ideologico che producono e hanno prodotto quei popoli in armi. E’ come dire che il merito della rivoluzione francese è della ghigliottina e non piuttosto che questa è stato uno strumento per tagliare la testa al Re; strumento di un movimento che ha prodotto una cultura e una ideologia, che aveva fame di pane e di libertà. Lo strumento diventa il fine. L’obbiettivo non è più fare la rivoluzione, l’obbiettivo è farla su internet. E’ evidente che questo movimento non accetterebbe mai l’idea insurrezionalista che non tutto può essere salvato ma ci sono mezzi da distruggere, e meno che mai l’idea primitivista che tutto vada distrutto. Andrebbero subito in crisi d’astinenza per mancanza di Facebook: per la disperazione si romperebbero la testa contro le pareti delle caverne. Anche se qualcuno potrebbe dire, citando ironicamente le nostre tesi naturaliste, che anche questa è selezione naturale.
Il fatto che tutto va salvato e che tutto marcia verso il progresso (soprattutto le cose nuove e alla moda nei supermercati della borghesia occidentale: esilaranti sono le laudi decantate in onore del web 2.0) lo si vede nel loro concetto di economia finanziaria e nello speculare movimento per il reddito minimo garantito. Su questo Marx è ancora attuale: noi siamo certi che il valore viene dal lavoro, di conseguenza il profitto viene da una parte del plusvalore ottenuto costringendo il lavoratore ad effettuare un surplus di lavoro. Questi concetti possono sembrare difficili, ma sono esprimibili anche attraverso evidenze empiriche assolutamente semplici. Il capitale che viene giocato in borsa non nasce dal nulla (come ritengono concordi negriani e liberisti). I titoli della FIAT salgono perché la compagnia distribuisce agli azionisti i dividendi prodotti con lo sfruttamento, la riduzione delle pause, la cassa integrazione dei lavoratori. Gli azionisti che comprano titoli di case di indumenti ricevono profitto perché ci sono dei bambini che cuciono scarpe e maglioni per meno di un dollaro al giorno in Asia.
Molti di questi processi sono oscuri anche alla maggior parte dei capitalisti. La maggior parte dei capitalisti finanziari dei nostri tempi sono degli ignoranti senza dignità, gente che ha grandi intuizioni economico-algortmiche, che intuiscono dunque come vanno i titoli in borsa e che di conseguenza investono e traggono profitto dai loro investimenti. La cosa davvero drammatica è che a questa ideologia magico-hegeliana del denaro che compare dal nulla, credono anche alcuni nostri vecchi compagni. L’idea del reddito garantito si fonda proprio su questa menzogna: l’idea che tassando chi gioca in borsa si possono trovare ricchezze sufficienti per dare un salario a tutti. Questo punto è teorizzato molto precisamente dai cosiddetti “negriani” per i quali ormai il problema non è più nella produzione delle ricchezze, ma nella loro distribuzione – ribaltando il vecchio adagio di Marx che sosteneva precisamente il contrario. Come dicevamo l’ultima moda della borghesia, dal web 2.0 all’economia finanziaria, diventa paradigma epocale per questa scuola filosofica.
Anche se ribaltano le geniali intuizioni economiche di Marx, alla base di questa scuola vi è comunque un certo marxismo volgare che tanto piaceva in passato alla socialdemocrazia e che si fonda su due assiomi: 1) il mito del progresso; 2) il mito della redistribuzione dei frutti del progresso. Loro sostengo – lo scolarca in maniera più velata, gli scolari in maniera più grezza ma per questo spesso più comprensibile – che come in passato si lottava per redistribuire le ricchezze prodotte dalle industrie e di cui si appropriavano solo i padroni, oggi bisogna lottare per distribuire equamente le ricchezze prodotte dal web 2.0 e da altre diavolerie informatiche accumulate dall’Impero (questa entità romanzesca) da noi consumatori quando ci scarichiamo un porno o copriamo una lavatrice su e-bay. Poiché non c’è più il capitalismo ma il biocapitalismo, anche noi vogliamo un bioreddito, per il solo fatto di esistere, di consumare, di mandare sms che riempiono le casse della vodafon, di fumare sigarette che fanno crescere i titoli della Malboro.
Non vi è nulla di più vergognoso che assecondare questa richiesta borghese, questa protesta per il diritto di essere tutti borghesi. Poiché i titoli in borsa non salgono per il fatto che noi esistiamo come entità biologiche, ma perché ci sono altri organismi biologici di 12 anni che cuciono scarpe per la Nike, chiedere una tassa sulla borsa da dividere per un salario garantito è come chiedere una percentuale sullo sfruttamento che viene fatto nel Sud del mondo per il solo fatto che noi siamo cittadini del Nord. Ecco perché parlano di bioreddito!
A proposito di ciò che va distrutto e di ciò che va salvato: la borsa è certamente la prima cosa che va distrutta, abbattuta e puniti i suoi criminali. Non vogliamo che i broker ci paghino una percentuale dei loro profitti, li vogliamo fucilare.
Quattordicesima ipotesi
La concezione incarnata della mente
L’analisi del cognitivismo (che abbiamo fatto nel paragrafo precedente e in moltissime nostre riunioni, segno del rispetto che abbiamo malgrado le critiche per tale movimento) ci porta dritti dritti verso una questione filosofica centrale: che cos’è la mente?
René Descartes e Antonio Negri ritengono che la realtà abbia una natura ontologicamente dualistica: da un lato vi è la res cogitans cartesiana e il proletariato cognitivo negriano, dall’altro vi è la res exstenza cartesiana e il vecchio mondo fordista negriano. Queste due sostanze, ci dicono Cartesio e Negri quasi con le stesse parole, pur se ontologicamente diverse si trovano unite nell’essere umano. Esso è sia corpo che mente, ma il corpo e la mente sono cose ben diverse, e solo la mente, solo l’anima, è la vera guida del corpo e la sede della razionalità e di tutta la nostra personalità. Esso è sia lavoratore che pensatore, ma il lavoro di fabbrica fa schifo mentre il vero lavoro è quello cognitivo. Come fanno ad essere unite? Negri non ce lo spiega, ci dice solo che il web 2.0, Facebook e i nuovi sfruttati dei call center porteranno alla vittoria del cognitivo sul materiale. Cartesio, uomo assai più saggio, formula l’ipotesi dell’occasionalismo e quindi ritiene che dopo la morte la mente continuerà a vivere. Praticamente le stesse cose; unica differenza, Cartesio non veniva dall’Autonomia Operaia.
La concezione disincarnata della mente, o dell’anima se vogliamo usare un termine meno moderno (pensiamo al caso di Platone), si scontra con la più scientifica concezione incarnata della mente, anch’essa di origine assai antica (Aristotele, Epicuro, gli storici, ecc). Sono però le recenti ricerche nell’ambito delle scienze cognitive – che, fosse solo per ragioni “ermeneutiche”, i cognitivisti maccheronici dovrebbero studiare – a confutare l’ipotesi disincarnata a favore di quella di una mente incarnata e distribuita nel corpo.
In un primo momento infatti le scienze cognitive avevano preso via dalle ricerche di intelligenza artificiale e dal funzionalismo, una importante filosofia della mente del Novecento che aderiva alla cosiddetta concezione computazionale e rappresentazionale della mente. In poche parole, secondo questa scuola la mente non è altro che una computazione, un algoritmo di rappresentazioni. Ci sono quindi della “cose” assolutamente prive di valore semantico, le rappresentazioni, che prendono la forma di inferenze mentali esclusivamente per il loro ruolo funzionale negli algoritmi che si verificano nella nostra anima. Contro questa concezione si scagliavano grandi filosofi e grandi compagni come Walter Benjamin, il quale riteneva che la concezione borghese della lingua distruggesse il valore semantico, magico delle parole, vedendo le parole non come qualcosa che si slancia verso l’essere, verso la realtà, ma delle mere etichette da appiccicare alle cose. In termini geografici, uno scontro fra una visione greco-latino-tedesca della lingua e una visione analitica tipica degli anglo-americani.
Sul piano morale, siamo commossi dalla precisione con cui Benjamin denuncia la strumentalità semantica del linguaggio in mano alla borghesia (il nostro compagno lo sapeva bene, vivendo, tanto più da ebreo, nella Germania nazista). Tale strumentalità la possiamo ritrovare anche nei giorni nostri: si pensi al berlusconismo e alla manipolazione mentale-linguistica che ci impone con le sue TV; si pensi al sionismo, con la manipolazione del linguaggio e della stessa cronaca dei fatti nella pulizia etnica che svolge contro le popolazioni palestinesi; si pensi – senza offesa, e ancora una volta con rispetto per le loro ricerche non dogmatiche – ai concetti semanticamente vuoti come “comune”, “moltitudini”, “proletariato cognitivo”, “impero” che hanno una grande forza innovativa ma non dicono davvero nulla di sostanziale.
Sul piano scientifico, però Benjamin non da una risposta concreta a quella che lui chiama la concezione borghese della lingua né più precisamente al funzionalismo che si svilupperà in gran parte dopo la sua precoce morte. A nostro avviso Benjamin paga il suo irriducibile idealismo. Le risposte scientifiche alla concezione disincarnata della mente, al funzionalismo, alla concezione computazionale e algoritmica dell’anima umana, sono state date negli ultimi decenni dalle stesse scienze cognitive. In particolare per quanto riguarda la biologia e la ricerca sulle reti neurali.
Oggi noi sappiamo che la mente è qualcosa di incarnato e di distribuito nel corpo. La mente si trova nelle nostre mani, nel tatto, nella vista, nello stomaco (dove si parla addirittura di “secondo cervello” per la quantità e l’autonomia delle terminazioni nervose dal “governo centrale”). Si trova anche oltre il corpo, negli appunti, in un libro, nelle tecnologie con cui aiutiamo la nostra mente a supportare la sua crescita che altrimenti non avrebbe saputo contenere. Ad esempio, senza scrittura, gli uomini, pur con la stessa struttura biologica, avrebbero fatto molti meno progressi: si pensi ad una scienza senza manuali, senza libri, senza formule, senza “trucchi” per mettere in colonna i numeri e fare le operazioni matematiche, una scienza completamente orale, anzi completamente “cognitiva”. In questo contesto certo che è importante l’informatica, ma come strumento non come fine. Se i programmi di calcolo elettronici dovessero portare ad uno sviluppo analogo a quello che ha portato l’uso della scrittura in matematica rispetto alle preistoria dove si contava con le dita, ci saranno senz’altro progressi fenomenali alle porte. Ma non è certo il web 2.0 e il social network il messia di questa liberazione, piuttosto una scienza materialista che fa dei progressi sempre più fenomenali.
La mente è distribuita del corpo (come direbbe Epicuro, gli atomi dell’anima sono disseminati nel complesso corporeo). E usa altri corpi per crescere – dalla penna e il foglio di carta al computer.
Quindicesima ipotesi
L’analisi del cognitivismo (che abbiamo fatto nel paragrafo precedente e in moltissime nostre riunioni, segno del rispetto che abbiamo malgrado le critiche per tale movimento) ci porta dritti dritti verso una questione filosofica centrale: che cos’è la mente?
René Descartes e Antonio Negri ritengono che la realtà abbia una natura ontologicamente dualistica: da un lato vi è la res cogitans cartesiana e il proletariato cognitivo negriano, dall’altro vi è la res exstenza cartesiana e il vecchio mondo fordista negriano. Queste due sostanze, ci dicono Cartesio e Negri quasi con le stesse parole, pur se ontologicamente diverse si trovano unite nell’essere umano. Esso è sia corpo che mente, ma il corpo e la mente sono cose ben diverse, e solo la mente, solo l’anima, è la vera guida del corpo e la sede della razionalità e di tutta la nostra personalità. Esso è sia lavoratore che pensatore, ma il lavoro di fabbrica fa schifo mentre il vero lavoro è quello cognitivo. Come fanno ad essere unite? Negri non ce lo spiega, ci dice solo che il web 2.0, Facebook e i nuovi sfruttati dei call center porteranno alla vittoria del cognitivo sul materiale. Cartesio, uomo assai più saggio, formula l’ipotesi dell’occasionalismo e quindi ritiene che dopo la morte la mente continuerà a vivere. Praticamente le stesse cose; unica differenza, Cartesio non veniva dall’Autonomia Operaia.
La concezione disincarnata della mente, o dell’anima se vogliamo usare un termine meno moderno (pensiamo al caso di Platone), si scontra con la più scientifica concezione incarnata della mente, anch’essa di origine assai antica (Aristotele, Epicuro, gli storici, ecc). Sono però le recenti ricerche nell’ambito delle scienze cognitive – che, fosse solo per ragioni “ermeneutiche”, i cognitivisti maccheronici dovrebbero studiare – a confutare l’ipotesi disincarnata a favore di quella di una mente incarnata e distribuita nel corpo.
In un primo momento infatti le scienze cognitive avevano preso via dalle ricerche di intelligenza artificiale e dal funzionalismo, una importante filosofia della mente del Novecento che aderiva alla cosiddetta concezione computazionale e rappresentazionale della mente. In poche parole, secondo questa scuola la mente non è altro che una computazione, un algoritmo di rappresentazioni. Ci sono quindi della “cose” assolutamente prive di valore semantico, le rappresentazioni, che prendono la forma di inferenze mentali esclusivamente per il loro ruolo funzionale negli algoritmi che si verificano nella nostra anima. Contro questa concezione si scagliavano grandi filosofi e grandi compagni come Walter Benjamin, il quale riteneva che la concezione borghese della lingua distruggesse il valore semantico, magico delle parole, vedendo le parole non come qualcosa che si slancia verso l’essere, verso la realtà, ma delle mere etichette da appiccicare alle cose. In termini geografici, uno scontro fra una visione greco-latino-tedesca della lingua e una visione analitica tipica degli anglo-americani.
Sul piano morale, siamo commossi dalla precisione con cui Benjamin denuncia la strumentalità semantica del linguaggio in mano alla borghesia (il nostro compagno lo sapeva bene, vivendo, tanto più da ebreo, nella Germania nazista). Tale strumentalità la possiamo ritrovare anche nei giorni nostri: si pensi al berlusconismo e alla manipolazione mentale-linguistica che ci impone con le sue TV; si pensi al sionismo, con la manipolazione del linguaggio e della stessa cronaca dei fatti nella pulizia etnica che svolge contro le popolazioni palestinesi; si pensi – senza offesa, e ancora una volta con rispetto per le loro ricerche non dogmatiche – ai concetti semanticamente vuoti come “comune”, “moltitudini”, “proletariato cognitivo”, “impero” che hanno una grande forza innovativa ma non dicono davvero nulla di sostanziale.
Sul piano scientifico, però Benjamin non da una risposta concreta a quella che lui chiama la concezione borghese della lingua né più precisamente al funzionalismo che si svilupperà in gran parte dopo la sua precoce morte. A nostro avviso Benjamin paga il suo irriducibile idealismo. Le risposte scientifiche alla concezione disincarnata della mente, al funzionalismo, alla concezione computazionale e algoritmica dell’anima umana, sono state date negli ultimi decenni dalle stesse scienze cognitive. In particolare per quanto riguarda la biologia e la ricerca sulle reti neurali.
Oggi noi sappiamo che la mente è qualcosa di incarnato e di distribuito nel corpo. La mente si trova nelle nostre mani, nel tatto, nella vista, nello stomaco (dove si parla addirittura di “secondo cervello” per la quantità e l’autonomia delle terminazioni nervose dal “governo centrale”). Si trova anche oltre il corpo, negli appunti, in un libro, nelle tecnologie con cui aiutiamo la nostra mente a supportare la sua crescita che altrimenti non avrebbe saputo contenere. Ad esempio, senza scrittura, gli uomini, pur con la stessa struttura biologica, avrebbero fatto molti meno progressi: si pensi ad una scienza senza manuali, senza libri, senza formule, senza “trucchi” per mettere in colonna i numeri e fare le operazioni matematiche, una scienza completamente orale, anzi completamente “cognitiva”. In questo contesto certo che è importante l’informatica, ma come strumento non come fine. Se i programmi di calcolo elettronici dovessero portare ad uno sviluppo analogo a quello che ha portato l’uso della scrittura in matematica rispetto alle preistoria dove si contava con le dita, ci saranno senz’altro progressi fenomenali alle porte. Ma non è certo il web 2.0 e il social network il messia di questa liberazione, piuttosto una scienza materialista che fa dei progressi sempre più fenomenali.
La mente è distribuita del corpo (come direbbe Epicuro, gli atomi dell’anima sono disseminati nel complesso corporeo). E usa altri corpi per crescere – dalla penna e il foglio di carta al computer.
Quindicesima ipotesi
Lo sfruttamento del corpo e della mente da parte del capitale
Non vi è quindi alcuna differenza ontologica fra il vecchio operaio fordista e il moderno operatore nei call center. Alcuni dei compagni che studiano nella Scuola Umbra hanno lavorato nei call center e possono testimoniare come sia fisico anche quel lavoro, il lavoro cognitivo per eccellenza: perdita graduale della vista, disturbo del sonno, emicrania, tendinite ai polsi a causa dell’uso eccessivo del computer.
Il problema è risolvibile anche in chiave ontologica: la mente è un corpo, la mente è parte del corpo ed è in ogni parte del corpo; è dunque evidente che qualsiasi lavoro è un lavoro cognitivo e qualsiasi lavoro cognitivo è comunque un lavoro fisico. Anzi, con tutto il rispetto per le compagne precarie, le bambine schiave nelle miniere, nella fabbriche della Nike, usate come soldati o come schiave del turismo sessuale per qualche grassone americano, pagano in maniera ben più grave le loro tribolazioni fisiche anche sul piano psicologico.
Il capitalismo è quindi una bestia che divora il corpo e la mente di miliardi di sfruttati nel mondo, che umilia e piega l’anima di chi non si arrende, che tortura e ammazza gli oppositori. Ma soprattutto ci sono menti e corpi che vanno consumati non per ragioni ideologiche, ma per ragioni del tutto materiali: sono il carburante e l’olio di cui ci parla Marx nel Capitale, il loro consumo è calcolato dal padrone come è calcolato il consumo del carbone per una macchina.
Sedicesima ipotesi
Non vi è quindi alcuna differenza ontologica fra il vecchio operaio fordista e il moderno operatore nei call center. Alcuni dei compagni che studiano nella Scuola Umbra hanno lavorato nei call center e possono testimoniare come sia fisico anche quel lavoro, il lavoro cognitivo per eccellenza: perdita graduale della vista, disturbo del sonno, emicrania, tendinite ai polsi a causa dell’uso eccessivo del computer.
Il problema è risolvibile anche in chiave ontologica: la mente è un corpo, la mente è parte del corpo ed è in ogni parte del corpo; è dunque evidente che qualsiasi lavoro è un lavoro cognitivo e qualsiasi lavoro cognitivo è comunque un lavoro fisico. Anzi, con tutto il rispetto per le compagne precarie, le bambine schiave nelle miniere, nella fabbriche della Nike, usate come soldati o come schiave del turismo sessuale per qualche grassone americano, pagano in maniera ben più grave le loro tribolazioni fisiche anche sul piano psicologico.
Il capitalismo è quindi una bestia che divora il corpo e la mente di miliardi di sfruttati nel mondo, che umilia e piega l’anima di chi non si arrende, che tortura e ammazza gli oppositori. Ma soprattutto ci sono menti e corpi che vanno consumati non per ragioni ideologiche, ma per ragioni del tutto materiali: sono il carburante e l’olio di cui ci parla Marx nel Capitale, il loro consumo è calcolato dal padrone come è calcolato il consumo del carbone per una macchina.
Sedicesima ipotesi
La dittatura tecnologica. Ancora: cosa salvare, cosa distruggere?
Una delle più gravi mistificazioni dei nostri tempi riguarda la concezione borghese di una presunta carica liberatoria rappresentata dalla nuove tecnologie. Pur non essendo dei primitivisti e non auspicando un ritorno indietro, non riusciamo ad accettare l’assioma che vuole nello sviluppo tecnologico un elemento in sé progressivo di rivoluzione. Un assioma, bisogna avere il coraggio di riconoscerlo, a cui ha dato l’impressione di credere lo stesso Marx – a nostro avviso sbagliando.
Da tale assioma, anche nei giorni nostri, c’è chi ha dedotto in maniera univoca la presenza di uno spirito redentore nelle nuove tecnologie, ad esempio ritenendo che i nuovi sfruttati ad altra tecnologia avessero delle capacità cognitive superiori di quelle dei vecchi sfruttati. Tale teorema è in realtà auto-contraddittorio: in primo luogo infatti afferma che il piano cognitivo è in crescita, dall’altro, però, lo relega ad una crescita meramente computazionale, legato agli effetti benefici dei calcolatori (i computer) svilendo il concetto stesso di mente e di intelligenza, dandone un ruolo meramente funzionalista.
L’intelligenza, la razionalità, la conoscenza è soluzione di problemi. Tale processo di risoluzione ha certamente in sé l’aspetto deduttivo, ma esso non è né unico né dominante, ma compete con altre abilità cognitive come l’induzione, l’analogia, l’abduzione, la formulazione di ipotesi, il procedimento per tentativi ed errori. Tutte arti che un calcolatore elettronico non possiede mentre sono possedute non solo dagli uomini, ma perfino dalle specie viventi più elementari; e quando il computer è così sviluppato da imitarle esse non vanno a vantaggio dell’utente ma impigriscono la sua mente.
Va quindi rovesciato l’assioma secondo cui lo sviluppo tecnologico è di per sé uno sviluppo cognitivo. L’operaio fordista ha cominciato a perdere le abilità artigianali della mera produzione cooperativa, abilità artigianali ancor più ignote ai moderni sfruttati. L’uso delle macchine, nel lavoro come nel tempo libero, non ha favorito lo sviluppo cognitivo ma ha indebolito la memoria, ha specializzato le conoscenze, ha inibito l’autogestione della propria vita in autonomia rispetto al sistema economico e tecnologico che lo stato e il capitale ci hanno cucito intorno (dal riscaldamento, ai cellulari, alle corrente elettrica, ad internet; siamo sempre più dipendenti).
Questo non significa che noi predichiamo un assioma uguale e contrario: noi siamo contro ogni presa di posizione di tipo assiomatico. Per noi queste tecnologie possono assolutamente rappresentare una forza migliorativa per la nostra vita e la nostra conoscenza scientifica, ma questo ruolo non è assolutamente necessario e universale. Certamente autogestire una grande industria moderna è molto più difficile che occupare e gestire collettivamente una fabbrica durante il biennio rosso. Questo però può portare non solo ad uno scoraggiamento, come quello a cui abbiamo assistito negli ultimi trenta anni di neo-liberismo e di sviluppo tecnologico globalizzato, ma anche ad una evoluzione dei lavoratori che un domani si trovassero a gestire questi nuovi e più complessi mezzi di produzione.
Ma questa evoluzione non ha la necessità di una deduzione, piuttosto nasce da uno scontro, da una lotta per la vita e per l’autogestione della propria vita. Uno scontro che non è meccanicamente ovvio porterà alla redenzione e allo sviluppo mentale degli sfruttati, ma che anzi può anche portare ad una sconfitta, ad un inflaccidimento fisico e quindi cognitivo – come purtroppo sta avvenendo al momento.
Oggi noi viviamo in una dittatura tecnologica, in un regime che spia i nostri movimenti, che riprende le nostre strade, che fotografa le manifestazioni in cui andiamo, che ci segue con i gps nelle auto e le microspie a casa e a lavoro. Di fronte a questa dittatura tecnologica, elogiare il web 2.0 e la forza redentrice di internet significa complottare con il nemico. Se non si aderisce alla religione dualistica che vuole il cognitivo e il materiale come realtà ontologiche separate, allora si deve riconoscere che non vi è differenza fra lo sviluppo di internet e le guerre in Africa contro le popolazioni locali, lo sterminio delle tribù, la distruzione delle foreste affinché vengano estratti i materiali con cui sono fatti computer e telefonini.
Ancora una volta ci troviamo di fronte ad un grande problema per il movimento rivoluzionario: Cosa possiamo salvare? Cosa dobbiamo distruggere?
Ci sono una marea di strumenti della dittatura tecnologica che non possono essere salvati dopo la distruzione del capitalismo. Un movimento rivoluzionario al passo con i tempi deve riconoscere che nella società socialista e libertaria del futuro dobbiamo superare l’uso del petrolio, del carbone, l’abolizione delle tecnologie di tipo nucleare; non possiamo più avallare violazioni dei diritti umani (avvenuti sia nelle società borghesi sia nei tentativi di socialismo dello scorso secolo) come lo spionaggio tecnologico, le intercettazioni, le torture tecnologiche (e ovviamente non solo tecnologiche); dobbiamo proibire il controllo elettronico degli operai (come ad esempio sta sperimentando la FIAT a Pomigliano e Mirafiori), non possiamo più permettere l’esistenza delle telecamere a circuito chiuso nei luoghi di lavoro, ma nemmeno nei luoghi di svago e di lotta; la nuova società dovrà avere un’etica ambientale che impedisca la costruzione indiscriminata, bisogna bloccare la cementificazione e imporre una parziale distruzione del cemento di troppo, nell’immediato ci vuole un blocco di tutti i fabbricati nei paesi ricchi, ci sono già abbastanza case, per l’edilizia popolare si procederà con la redistribuzione delle case della borghesia; bisogna punire chi fa credito, banchieri e usurai devono essere messi in condizione di non fare più del male al popolo; la borsa e la finanza virtuale deve essere distrutta.
Uscire dalla dittatura tecnologica non è possibile fin che si continua a cantare le laudi dei prodotti dei supermarchi borghesi, ma nemmeno fino a che si continua a perseguire uno sterile primitivismo. Ci vuole l’azione diretta, ma ci vuole soprattutto l’elaborazione di un sistema altro.
Diciassettesima ipotesi
Una delle più gravi mistificazioni dei nostri tempi riguarda la concezione borghese di una presunta carica liberatoria rappresentata dalla nuove tecnologie. Pur non essendo dei primitivisti e non auspicando un ritorno indietro, non riusciamo ad accettare l’assioma che vuole nello sviluppo tecnologico un elemento in sé progressivo di rivoluzione. Un assioma, bisogna avere il coraggio di riconoscerlo, a cui ha dato l’impressione di credere lo stesso Marx – a nostro avviso sbagliando.
Da tale assioma, anche nei giorni nostri, c’è chi ha dedotto in maniera univoca la presenza di uno spirito redentore nelle nuove tecnologie, ad esempio ritenendo che i nuovi sfruttati ad altra tecnologia avessero delle capacità cognitive superiori di quelle dei vecchi sfruttati. Tale teorema è in realtà auto-contraddittorio: in primo luogo infatti afferma che il piano cognitivo è in crescita, dall’altro, però, lo relega ad una crescita meramente computazionale, legato agli effetti benefici dei calcolatori (i computer) svilendo il concetto stesso di mente e di intelligenza, dandone un ruolo meramente funzionalista.
L’intelligenza, la razionalità, la conoscenza è soluzione di problemi. Tale processo di risoluzione ha certamente in sé l’aspetto deduttivo, ma esso non è né unico né dominante, ma compete con altre abilità cognitive come l’induzione, l’analogia, l’abduzione, la formulazione di ipotesi, il procedimento per tentativi ed errori. Tutte arti che un calcolatore elettronico non possiede mentre sono possedute non solo dagli uomini, ma perfino dalle specie viventi più elementari; e quando il computer è così sviluppato da imitarle esse non vanno a vantaggio dell’utente ma impigriscono la sua mente.
Va quindi rovesciato l’assioma secondo cui lo sviluppo tecnologico è di per sé uno sviluppo cognitivo. L’operaio fordista ha cominciato a perdere le abilità artigianali della mera produzione cooperativa, abilità artigianali ancor più ignote ai moderni sfruttati. L’uso delle macchine, nel lavoro come nel tempo libero, non ha favorito lo sviluppo cognitivo ma ha indebolito la memoria, ha specializzato le conoscenze, ha inibito l’autogestione della propria vita in autonomia rispetto al sistema economico e tecnologico che lo stato e il capitale ci hanno cucito intorno (dal riscaldamento, ai cellulari, alle corrente elettrica, ad internet; siamo sempre più dipendenti).
Questo non significa che noi predichiamo un assioma uguale e contrario: noi siamo contro ogni presa di posizione di tipo assiomatico. Per noi queste tecnologie possono assolutamente rappresentare una forza migliorativa per la nostra vita e la nostra conoscenza scientifica, ma questo ruolo non è assolutamente necessario e universale. Certamente autogestire una grande industria moderna è molto più difficile che occupare e gestire collettivamente una fabbrica durante il biennio rosso. Questo però può portare non solo ad uno scoraggiamento, come quello a cui abbiamo assistito negli ultimi trenta anni di neo-liberismo e di sviluppo tecnologico globalizzato, ma anche ad una evoluzione dei lavoratori che un domani si trovassero a gestire questi nuovi e più complessi mezzi di produzione.
Ma questa evoluzione non ha la necessità di una deduzione, piuttosto nasce da uno scontro, da una lotta per la vita e per l’autogestione della propria vita. Uno scontro che non è meccanicamente ovvio porterà alla redenzione e allo sviluppo mentale degli sfruttati, ma che anzi può anche portare ad una sconfitta, ad un inflaccidimento fisico e quindi cognitivo – come purtroppo sta avvenendo al momento.
Oggi noi viviamo in una dittatura tecnologica, in un regime che spia i nostri movimenti, che riprende le nostre strade, che fotografa le manifestazioni in cui andiamo, che ci segue con i gps nelle auto e le microspie a casa e a lavoro. Di fronte a questa dittatura tecnologica, elogiare il web 2.0 e la forza redentrice di internet significa complottare con il nemico. Se non si aderisce alla religione dualistica che vuole il cognitivo e il materiale come realtà ontologiche separate, allora si deve riconoscere che non vi è differenza fra lo sviluppo di internet e le guerre in Africa contro le popolazioni locali, lo sterminio delle tribù, la distruzione delle foreste affinché vengano estratti i materiali con cui sono fatti computer e telefonini.
Ancora una volta ci troviamo di fronte ad un grande problema per il movimento rivoluzionario: Cosa possiamo salvare? Cosa dobbiamo distruggere?
Ci sono una marea di strumenti della dittatura tecnologica che non possono essere salvati dopo la distruzione del capitalismo. Un movimento rivoluzionario al passo con i tempi deve riconoscere che nella società socialista e libertaria del futuro dobbiamo superare l’uso del petrolio, del carbone, l’abolizione delle tecnologie di tipo nucleare; non possiamo più avallare violazioni dei diritti umani (avvenuti sia nelle società borghesi sia nei tentativi di socialismo dello scorso secolo) come lo spionaggio tecnologico, le intercettazioni, le torture tecnologiche (e ovviamente non solo tecnologiche); dobbiamo proibire il controllo elettronico degli operai (come ad esempio sta sperimentando la FIAT a Pomigliano e Mirafiori), non possiamo più permettere l’esistenza delle telecamere a circuito chiuso nei luoghi di lavoro, ma nemmeno nei luoghi di svago e di lotta; la nuova società dovrà avere un’etica ambientale che impedisca la costruzione indiscriminata, bisogna bloccare la cementificazione e imporre una parziale distruzione del cemento di troppo, nell’immediato ci vuole un blocco di tutti i fabbricati nei paesi ricchi, ci sono già abbastanza case, per l’edilizia popolare si procederà con la redistribuzione delle case della borghesia; bisogna punire chi fa credito, banchieri e usurai devono essere messi in condizione di non fare più del male al popolo; la borsa e la finanza virtuale deve essere distrutta.
Uscire dalla dittatura tecnologica non è possibile fin che si continua a cantare le laudi dei prodotti dei supermarchi borghesi, ma nemmeno fino a che si continua a perseguire uno sterile primitivismo. Ci vuole l’azione diretta, ma ci vuole soprattutto l’elaborazione di un sistema altro.
Diciassettesima ipotesi
Dittatura tecnologica e perdita della memoria
Uno degli effetti più devastanti della dittatura tecnologica – alla faccia di chi crede che da essa provenga una crescita congnitiva – è la progressiva perdita della memoria. Recenti studi dimostrano che un terzo degli inglesi sotto i 30 anni non ricorda il proprio numero di casa a memoria. I telefonini, le agende elettroniche, i promemoria digitali che squillano al momento giusto, stanno piano piano fottendo le abilita cognitive di milioni di persone nel mondo. Più gravi i dati che emergono da alcuni sondaggi italiani, per i loro risvolti politici: la maggior parte degli italiani crede che la bomba fascista a piazza Fontana a Milano è stata messa dalle Brigate Rosse e una grassa minoranza la imputa agli anarchici.
Questo processo, per uno studioso rivoluzionario, è interessante. La prima cosa che è nostro avviso si deve notare è che in essa avviene un ribaltamento nell’egemonia culturale fino ad oggi in mano alla classe dominante: al contrario, oggi il processo di perdita della memoria è un indebolimento mentale e culturale che colpisce in primo luogo la giovane borghesia occidentale. Si tratta di un fatto rivoluzionario su cui a nostro modesto avviso si è dedicata troppo poca attenzione.
Se per millenni la cultura era in mano ai sacerdoti del dominio, se la storia che studiamo sui libri nelle scuole è stata da sempre scritta dagli oppressori, ora la giovane borghesia dei paesi più ricchi del mondo si sta gravemente rimbecillendo. La causa? Internet, cellulari, lettori mp3, alcol, droghe, televisione, psicofarmaci. Quale risultato avrà questo progressivo indebolimento cognitivo? Difficile dare una risposta certa. Possiamo, anche qui, fare delle ipotesi.
In primo luogo, va notato il carattere sociale del degrado mnemonico generato dalle nuove tecnologie. E’ una malattia che colpisce i benestanti. In secondo luogo, va posto l’accento sul dato geografico. E’ una malattia che colpisce gli occidentali. Numerosissime indagini dimostrano che i giovani studenti indiani o cinesi sono molto più bravi, lucidi, flessibili mentalmente, pazienti, volenterosi nelle fatiche degli studi dei loro contemporanei nordamericani.
Nel nostro approccio anti-dogmatico non dobbiamo avere paura nel criticare gli stessi movimenti pseudo-antagonisti. Un ruolo centrale lo ha avuto la pedagogia post-sessantottina, con la sua giusta critica ai saperi tradizionali, fra cui però inserivano il nozionismo e l’arte dell’imparare a memoria. Un nostro grande compagno, per ritornare in terra umbra, era il partigiano spoletino Francesco Spitella. Malgrado la povertà e gli studi mediocri, egli ricordava la Divina Commedia a memoria! Compagni del genere li abbiamo persi, anche nei circoli intellettuali più “alti”.
La critica al ruolo della memoria è stato un grave errore della pedagogia alternativa. Essa non è solo lo strumento dogmatico di qualche violento maestro fascista che bastonava chi errava in delle stupide nozioni. Il ruolo della memoria nasce all’alba nell’umanità e probabilmente prima del suo stesso sviluppo. Già Darwin notava che la memoria è una caratteristica tipica degli animali più evoluti. Per sopravvivere un organismo deve avere buona memoria delle proprie esperienze e da esse fare ipotesi vincenti. Sempre Darwin sottolinea il ruolo della memoria nello sviluppo della moralità. Noi, poiché abbiamo memoria delle nostre azioni, siamo capaci di provare dolore e rammarico dei nostri errori. La memoria è stata inoltre uno strumento che ci ha accompagnato per millenni. E’ stata la nostra prima “scoperta” culturale. Di generazione in generazione, i membri di una tribù conservavano la tecnica dell’accendere il fuoco o particolari strategie agricole o di caccia. Poemi come l’Iliade e l’Odissea sono giunti fino a noi solo grazie alla buona memoria di numerose generazioni di greci che ripetendole le hanno posti a fondamento della loro civiltà. Parmenide scrisse in versi perché così potesse essere meglio memorizzato il proprio pensiero, unica speranza per essere ricordato. Epicuro scriveva epitomi compendiare e obbligava i propri discepoli a impararle a memoria per non perdere mai i principi della retta filosofia.
Già Platone temeva che la memoria avrebbe perso il suo peso a causa delle “nuove tecnologie” di allora, come la scrittura. Nel Fedro racconta la storia di Theuth, dio inventore della scrittura, e di Thamus, re d’Egitto. Theuth offrì al re d’Egitto la sua “nuova tecnologia” affermando che con essa gli uomini sarebbero profondamente cresciuti in intelligenza e in capacità di ricordare. Ma Thamus rispose seccamente che questa scoperta avrebbe provocato proprio il contrario, ovvero che con la scrittura gli uomini non avrebbero più trovato le proprie conoscenze da se stessi, ma per mezzo di segni esterni. Ma Thamus e Platone si sbagliavano. E’ grazie alla scrittura che noi sappiamo chi fu Platone e cosa pensò, crescendo noi stessi e potendo far crescere la stessa filosofia facendo dei passi in avanti.
Noi non dobbiamo fare lo stesso errore di Platone per quanto riguarda le nuove tecnologie. Esse per certi aspetti indeboliscono la memoria (possiamo ipotizzare con estrema certezza che la memoria degli individui nelle società orali arcaiche fosse assai superiore di quella degli studiosi di età ellenistica che facevano ricerche nella Biblioteca di Alessandria), ma per altri ci forniscono dei supporti esterni su cui memorizzare le informazioni. Noi quindi non temiamo l’informatica, noi semplicemente sorridiamo nei confronti di chi ne tesse dogmaticamente le lodi.
Bisogna però fare attenzione. La storia non si ripete banalmente. In questo ultimo ciclo stanno avvenendo dei fenomeni speculari a quanto avvenne con l’invenzione della scrittura. L’invenzione della scrittura, infatti, provocò una selezione castale prima ancora che classista delle conoscenze. Prima i sacerdoti, poi i più ricchi in generale, furono i padroni di questo importante strumento. Il popolo quindi ha continuato con la tradizione orale, ma il risultato drammatico è che noi oggi non conosciamo la storia degli schiavi, non leggiamo poesie scritte pensando alle loro sofferenze, non sappiamo quante cose gli scrivani di corte non hanno voluto tramandare nella guerra di classe. Nei nostri giorni sta avvenendo qualcosa di diverso: i ricchi occidentali usano questi strumenti solo per non faticare, per avere un numero a portata di mano, per trovare una parola su wikipedia non ricordando più l’alfabeto e non avendo voglia di prendere in mano una vera enciclopedia. In altre parole, oggi queste nuove tecnologie stanno devastando il cervello della borghesia occidentale, mentre offrono importanti strumenti per giovanissimi ingegneri asiatici.
E’ un dato storico e scientifico che non possiamo dimenticare nelle nostre analisi.
Diciottesima ipotesi
Uno degli effetti più devastanti della dittatura tecnologica – alla faccia di chi crede che da essa provenga una crescita congnitiva – è la progressiva perdita della memoria. Recenti studi dimostrano che un terzo degli inglesi sotto i 30 anni non ricorda il proprio numero di casa a memoria. I telefonini, le agende elettroniche, i promemoria digitali che squillano al momento giusto, stanno piano piano fottendo le abilita cognitive di milioni di persone nel mondo. Più gravi i dati che emergono da alcuni sondaggi italiani, per i loro risvolti politici: la maggior parte degli italiani crede che la bomba fascista a piazza Fontana a Milano è stata messa dalle Brigate Rosse e una grassa minoranza la imputa agli anarchici.
Questo processo, per uno studioso rivoluzionario, è interessante. La prima cosa che è nostro avviso si deve notare è che in essa avviene un ribaltamento nell’egemonia culturale fino ad oggi in mano alla classe dominante: al contrario, oggi il processo di perdita della memoria è un indebolimento mentale e culturale che colpisce in primo luogo la giovane borghesia occidentale. Si tratta di un fatto rivoluzionario su cui a nostro modesto avviso si è dedicata troppo poca attenzione.
Se per millenni la cultura era in mano ai sacerdoti del dominio, se la storia che studiamo sui libri nelle scuole è stata da sempre scritta dagli oppressori, ora la giovane borghesia dei paesi più ricchi del mondo si sta gravemente rimbecillendo. La causa? Internet, cellulari, lettori mp3, alcol, droghe, televisione, psicofarmaci. Quale risultato avrà questo progressivo indebolimento cognitivo? Difficile dare una risposta certa. Possiamo, anche qui, fare delle ipotesi.
In primo luogo, va notato il carattere sociale del degrado mnemonico generato dalle nuove tecnologie. E’ una malattia che colpisce i benestanti. In secondo luogo, va posto l’accento sul dato geografico. E’ una malattia che colpisce gli occidentali. Numerosissime indagini dimostrano che i giovani studenti indiani o cinesi sono molto più bravi, lucidi, flessibili mentalmente, pazienti, volenterosi nelle fatiche degli studi dei loro contemporanei nordamericani.
Nel nostro approccio anti-dogmatico non dobbiamo avere paura nel criticare gli stessi movimenti pseudo-antagonisti. Un ruolo centrale lo ha avuto la pedagogia post-sessantottina, con la sua giusta critica ai saperi tradizionali, fra cui però inserivano il nozionismo e l’arte dell’imparare a memoria. Un nostro grande compagno, per ritornare in terra umbra, era il partigiano spoletino Francesco Spitella. Malgrado la povertà e gli studi mediocri, egli ricordava la Divina Commedia a memoria! Compagni del genere li abbiamo persi, anche nei circoli intellettuali più “alti”.
La critica al ruolo della memoria è stato un grave errore della pedagogia alternativa. Essa non è solo lo strumento dogmatico di qualche violento maestro fascista che bastonava chi errava in delle stupide nozioni. Il ruolo della memoria nasce all’alba nell’umanità e probabilmente prima del suo stesso sviluppo. Già Darwin notava che la memoria è una caratteristica tipica degli animali più evoluti. Per sopravvivere un organismo deve avere buona memoria delle proprie esperienze e da esse fare ipotesi vincenti. Sempre Darwin sottolinea il ruolo della memoria nello sviluppo della moralità. Noi, poiché abbiamo memoria delle nostre azioni, siamo capaci di provare dolore e rammarico dei nostri errori. La memoria è stata inoltre uno strumento che ci ha accompagnato per millenni. E’ stata la nostra prima “scoperta” culturale. Di generazione in generazione, i membri di una tribù conservavano la tecnica dell’accendere il fuoco o particolari strategie agricole o di caccia. Poemi come l’Iliade e l’Odissea sono giunti fino a noi solo grazie alla buona memoria di numerose generazioni di greci che ripetendole le hanno posti a fondamento della loro civiltà. Parmenide scrisse in versi perché così potesse essere meglio memorizzato il proprio pensiero, unica speranza per essere ricordato. Epicuro scriveva epitomi compendiare e obbligava i propri discepoli a impararle a memoria per non perdere mai i principi della retta filosofia.
Già Platone temeva che la memoria avrebbe perso il suo peso a causa delle “nuove tecnologie” di allora, come la scrittura. Nel Fedro racconta la storia di Theuth, dio inventore della scrittura, e di Thamus, re d’Egitto. Theuth offrì al re d’Egitto la sua “nuova tecnologia” affermando che con essa gli uomini sarebbero profondamente cresciuti in intelligenza e in capacità di ricordare. Ma Thamus rispose seccamente che questa scoperta avrebbe provocato proprio il contrario, ovvero che con la scrittura gli uomini non avrebbero più trovato le proprie conoscenze da se stessi, ma per mezzo di segni esterni. Ma Thamus e Platone si sbagliavano. E’ grazie alla scrittura che noi sappiamo chi fu Platone e cosa pensò, crescendo noi stessi e potendo far crescere la stessa filosofia facendo dei passi in avanti.
Noi non dobbiamo fare lo stesso errore di Platone per quanto riguarda le nuove tecnologie. Esse per certi aspetti indeboliscono la memoria (possiamo ipotizzare con estrema certezza che la memoria degli individui nelle società orali arcaiche fosse assai superiore di quella degli studiosi di età ellenistica che facevano ricerche nella Biblioteca di Alessandria), ma per altri ci forniscono dei supporti esterni su cui memorizzare le informazioni. Noi quindi non temiamo l’informatica, noi semplicemente sorridiamo nei confronti di chi ne tesse dogmaticamente le lodi.
Bisogna però fare attenzione. La storia non si ripete banalmente. In questo ultimo ciclo stanno avvenendo dei fenomeni speculari a quanto avvenne con l’invenzione della scrittura. L’invenzione della scrittura, infatti, provocò una selezione castale prima ancora che classista delle conoscenze. Prima i sacerdoti, poi i più ricchi in generale, furono i padroni di questo importante strumento. Il popolo quindi ha continuato con la tradizione orale, ma il risultato drammatico è che noi oggi non conosciamo la storia degli schiavi, non leggiamo poesie scritte pensando alle loro sofferenze, non sappiamo quante cose gli scrivani di corte non hanno voluto tramandare nella guerra di classe. Nei nostri giorni sta avvenendo qualcosa di diverso: i ricchi occidentali usano questi strumenti solo per non faticare, per avere un numero a portata di mano, per trovare una parola su wikipedia non ricordando più l’alfabeto e non avendo voglia di prendere in mano una vera enciclopedia. In altre parole, oggi queste nuove tecnologie stanno devastando il cervello della borghesia occidentale, mentre offrono importanti strumenti per giovanissimi ingegneri asiatici.
E’ un dato storico e scientifico che non possiamo dimenticare nelle nostre analisi.
Diciottesima ipotesi
La dittatura tecnocratica
La dittatura tecnologica si sta pian piano trasformando in una dittatura tecnocratica. Ogni partito politico rivendica l’assenza di ideologia nelle sue proposte, ma meri meriti tecnici. I ministri economici e delle finanze sono in mano a tecnici. Le grandi scelte economiche strategiche sono in mano a tecnici. Dagli assessorati nei municipi alla direzione delle grandi istituzioni europee i posti chiave sono occupati dai cosiddetti tecnici. I sindacati rivendicano di non fare proposte politiche, ma mere considerazioni tecniche. I movimenti di opposizione anche radicale e urlata (si pensi al Movimento a 5 stelle di Grillo) mandano al potere “giovani” tecnici disgustati dalla politica. La magistratura rivendica la sua indipendenza dalla politica e le sue competenze meramente tecniche.
A differenza delle dittatura ideologiche dello scorso secolo, la dittatura tecnologia ha delle motivazioni non più ideali e morali, ma meramente computazionali, tecniche. E infatti i tecnici sono delegati all’amministrazione del potere. Così la dittatura tecnologica diventa dittatura tecnocratica.
La tecnocrazia rappresenta un movimento che, sul piano etico e comportamentale, è molto simile al nazismo. Nel merito ci sono ovviamente differenze essenziali: il nazismo era ideologico, i tecnici del terzo millennio rivendicano di essere post-ideologici. Ma nel metodo ci sono analogie spaventose. Pensando alle riflessioni della Arendt sul senso del dovere che porta un bravo cittadino tedesco a lavorare con diligenza e professionalità in un campo di sterminio, noi possiamo rintracciare delle significative analogie con il senso del dovere, l’applicazione che si proclama neutrale della tecnica nelle scelte politiche, morali, giuridiche, economiche Un magistrato chiamato a giudicare uno schiavo delle campagne calabresi che ha fatto a pezzi con un’ascia il caporale che lo perseguitava, applica in maniera apolitica e amorale ciò che prevede il codice tecnico che ha studiato all’università. Esattamente come un tecnico del gas in un campo di sterminio nazista. E’ proibito dire la propria. Si è schiavi della procedura. E’ morta la soggettività.
Diciannovesima ipotesi
La dittatura tecnologica si sta pian piano trasformando in una dittatura tecnocratica. Ogni partito politico rivendica l’assenza di ideologia nelle sue proposte, ma meri meriti tecnici. I ministri economici e delle finanze sono in mano a tecnici. Le grandi scelte economiche strategiche sono in mano a tecnici. Dagli assessorati nei municipi alla direzione delle grandi istituzioni europee i posti chiave sono occupati dai cosiddetti tecnici. I sindacati rivendicano di non fare proposte politiche, ma mere considerazioni tecniche. I movimenti di opposizione anche radicale e urlata (si pensi al Movimento a 5 stelle di Grillo) mandano al potere “giovani” tecnici disgustati dalla politica. La magistratura rivendica la sua indipendenza dalla politica e le sue competenze meramente tecniche.
A differenza delle dittatura ideologiche dello scorso secolo, la dittatura tecnologia ha delle motivazioni non più ideali e morali, ma meramente computazionali, tecniche. E infatti i tecnici sono delegati all’amministrazione del potere. Così la dittatura tecnologica diventa dittatura tecnocratica.
La tecnocrazia rappresenta un movimento che, sul piano etico e comportamentale, è molto simile al nazismo. Nel merito ci sono ovviamente differenze essenziali: il nazismo era ideologico, i tecnici del terzo millennio rivendicano di essere post-ideologici. Ma nel metodo ci sono analogie spaventose. Pensando alle riflessioni della Arendt sul senso del dovere che porta un bravo cittadino tedesco a lavorare con diligenza e professionalità in un campo di sterminio, noi possiamo rintracciare delle significative analogie con il senso del dovere, l’applicazione che si proclama neutrale della tecnica nelle scelte politiche, morali, giuridiche, economiche Un magistrato chiamato a giudicare uno schiavo delle campagne calabresi che ha fatto a pezzi con un’ascia il caporale che lo perseguitava, applica in maniera apolitica e amorale ciò che prevede il codice tecnico che ha studiato all’università. Esattamente come un tecnico del gas in un campo di sterminio nazista. E’ proibito dire la propria. Si è schiavi della procedura. E’ morta la soggettività.
Diciannovesima ipotesi
La rivoluzione è una forza della natura
Quando vediamo il nordafrica in fiamme, quando pochi indigeni mal organizzati danno sonore lezioni alle maggiori potenze coloniali, quando rialziamo la testa di fronte all’oppressione…noi sentiamo una forza che ci prende e ci scuote, che rende possibile l’impossibile. Questa forza è la natura. E’ la nostra natura che ci obbliga alla dignità anche davanti ad una violenza crudele e insormontabile. Dobbiamo fare i conti con questa forza. Noi siamo i suoi prodotti, ma noi siamo anche i suoi inventori.
La rivoluzione è una forza della natura. La rivoluzione è un uragano. La rivoluzione è una tempesta di sabbia, cambia la geografia delle cose. E’ una potenza invincibile e irresistibile. E imprevedibile.
Quando diciamo che la rivoluzione è una forza della natura, non vogliamo dire che essa è prevedibile e necessaria, che essa avverrà certamente. La rivoluzione non è una forza provvidenziale. Potrebbe anche non arrivare mai. La quarta e la quinta ipotesi hanno chiarito che naturale non significa necessario.
La rivoluzione è una forza della natura, perché l’umanità è un prodotto della natura. L’umanità è anche una forza della natura. E’ un prodotto e al contempo una forza plasmatrice. E’ l’oggetto e il soggetto. Tutto ciò che fanno gli uomini è natura. Ogni organismo è un soggetto libero. In quanto libero, non è prevedibile nelle sue scelte. Come il clinamen di Lucrezio.
Ma la natura, in quanto prodotto, è un prodotto di soggetti liberi. Quindi imprevedibili. Quindi la natura non è prevedibile. Quindi la cospirazione dei suoi soggetti per una sua trasformazione non è controllabile. E quegli stessi soggetti non potranno mai determinare completamente, malgrado la loro libertà, i risultati oggettivi del loro movimento. Perché nello stesso momento in cui soggettivamente si ribellano diventano una forza della natura, un oggetto quindi. Da un lato, questa forza li domina. Da l’altro, essa è un loro prodotto libero. Sono liberi sia loro che il prodotto.
Così ci troviamo, uno davanti all’altro, noi e il nostro prodotto. Ma noi siamo la stessa cosa. Solo che a volte ci sembra un’impresa impossibile, a volte ci sembra oggettivamente impossibile cambiare le cose, liberarci dall’oppressione. Ci sembra qualcosa di irrealizzabile. E poi, all’improvviso, c’è un salto qualitativo. Siamo finalmente di nuovo in piazza, siamo finalmente capaci di rovesciare l’ordine costituito.
La rivoluzione è una forza della natura perché di fronte al pericolo per la nostra stessa sopravvivenza – la fame, le radiazioni, la guerra – la rivoluzione diventa un istinto. Noi non siamo più solo animali sociali. Non siamo più solo animali politici. Noi diventiamo animali rivoluzionari. La rivoluzione è un istinto che la natura ci da per la lotta per la vita.
Noi dobbiamo allenare questo istinto. Dobbiamo studiare. Dobbiamo combattere ogni giorno. Ma senza la pretesa di determinare esattamente quando essa arriverà.
La rivoluzione è sempre in moto. Ma non è detto che arriverà da qualche parte. Essa può spiazzare le previsioni dei padroni del mondo. Può far saltare i loro calcoli. Li costringe all’inseguimento. Bombardare quando fa comodo il dittatore, quando fa comodo i rivoluzionari. Lo sgomento del governo USA e la rabbia verso i propri servizi segreti per non aver capito cosa stava per succedere nel mondo arabo è indicativo.
La rivoluzione è una forza della natura. Potente e imprevedibile.
NOTA METODOLOGICA
Non abbiamo fatto citazioni dirette non certo per presunzione, perché pensiamo di aver creato qualcosa di completamente nuovo e che non ha debiti con nessun altra scuola filosofica del passato. Piuttosto perché dovremmo citare così tanto e così tanti che da un punto di vista miseramente stilistico questo documento sarebbe risultato completamente rovinato. A meno di non dover fare una cernita, citare qualcosa e qualcosa no, ma questo sarebbe stato ingiusto verso i “dimenticati”.
Pertanto i numerosi rinvii e i numerosi prestiti quando ci sono, molto spesso per la verità, li facciamo con le nostre parole, dicendo ad esempio “Tizio dice che…”, senza aprire le virgolette, mettere le note, ossequiare le case editrici in cui sono state pubblicati i brani tratti, ecc.
Per quanto riguarda il metodo in senso proprio delle nostre ricerche, come è chiaro la nostra procedura segue la via ipotetica. Questo per due ragioni, ragioni scientifiche e politiche in senso estremamente lato. Sul piano scientifico, noi siamo convinti che il metodo ipotetico sia il metodo migliore con cui la scienza debba procedere, in contrapposizione con il metodo assiomatico e ancor di più con l’oscurantismo dogmatico. Sul piano “politico” in un senso davvero vasto del termine, noi scegliamo di precedere “per ipotesi” per una ragione che è anche strategica e contingente: in altre parole, in questa fase noi non vogliamo e non possiamo divulgare la Buona Novella che illumini le sorti dell’umanità e la redima dalla sua miseria. E’ così incerta e dinamica la realtà, che ci sembra un dovuto atto di modestia denunciare la natura congetturale delle nostre proposte.
Le ipotesi non sono esposte in maniera gerarchica. Esse non rappresentano né la piramide dei dogmi, che discende dal più importante ai meno importanti, né la linea meccanica della deduzione da assiomi. Le ipotesi vengono formulate esclusivamente per risolvere problemi.
Ad esempio, al problema: Quale orizzonte per la conoscenza? Noi proponiamo la Prima ipotesi, il materialismo. Ma tale ipotesi, come ogni ipotesi, non è valida una volta per sempre, ma è sempre soggetta a criticità. Quindi la ricerca non si ferma alla prima ipotesi, poiché ogni ipotesi – come dice Cellucci – costituisce un nuovo problema, che come tale deve essere risolto: esso può essere risolto formulando un’altra ipotesi, in un processo potenzialmente infinito. Di fronte al nuovo problema costituito dall’ipotesi materialista, noi abbiamo formulato la Seconda ipotesi: il naturalismo. Tali ipotesi ci hanno permesso di affrontare un problema epocale della filosofia e della scienza: Che cosa è la conoscenza? A tale problema abbiamo risposto con la Terza ipotesi: la conoscenza è soluzione di problemi. Ma anche in questo caso, la nostra Terza ipotesi non può costituire un punto di arrivo certo e definitivo, ma solo un nuovo punto da cui ripartire. Ad esempio si costituisce subito un nuovo problema: Quale è il ruolo delle emozioni nella conoscenza in generale, e in particolare nella lotta politica? A questo problema abbiamo cercato di dare risposta con la Quarta ipotesi della Scuola Umbra.
L’ipotesi naturalista ci propone a sua volta una serie di problematicità a cui non potevamo non tentare di rispondere. Uno di questi problemi è ad esempio il problema del rapporto fra il concetto di natura e quello di necessità logica. A questo problema abbiamo tentato di rispondere con la Quinta e con la Sesta ipotesi. L’ipotesi del materialismo naturalista unita all’ipotesi euristica ci pone problemi anche nel campo del rapporto e dello statuto ontologico degli altri animali e in generale degli esseri viventi. Nella Settima ipotesi abbiamo dedotto che, se la conoscenza è soluzione di problemi e nella natura questo significa che il primo problema da risolvere è il problema della sopravvivenza, allora anche gli altri organismi hanno delle facoltà razionali più o meno sviluppate e hanno una conoscenza per quanto approssimativa dell’ambiente circostante. In quanto soggetti razionali vanno dunque rispettati.
L’intreccio delle congetture che abbiamo sviluppato da luogo a sempre nuovi problemi, un problematicità che rivendichiamo come costruttiva: infatti, tali problemi ci costringono a formulare delle ipotesi nuove e molto importanti. Ad esempio ci permettono di definire il rapporto dialettica fra l’uomo e la natura. Tale definizione (Ottava ipotesi) non sarebbe stata possibile se non avessimo sottolineato il fatto che ciò che è naturale non significa che è logicamente necessario, se non avessimo liberato la natura dal determinismo. Solo grazie alle ipotesi sviluppate e ai gravi ma stimolanti problemi che hanno creato, che abbiamo potuto almeno abbozzare una relazione dialettica ma non per questo deterministica fra l’umanità e la natura, soggetto e oggetto.
Se l’uomo è parte della natura, ma è anche come tutti gli altri organismi – anzi certamente più di ogni altro – soggetto demiurgico in grado di plasmarla di modificarla modificandosi (dato che egli ne è appunto parte), allora è evidente che ciò che è umano è naturale. Nella Nona ipotesi però abbiamo messo in guardia da una facile e meccanica deduzione: il fatto che l’uomo è natura non ci libera dall’onere di spiegare che “razza” di natura è, non ci esula dal determinare meglio una natura che non può rimanere quella che Hegel chiamerebbe la notte dove tutte le vacche sono nere. L’uomo è un soggetto così dirompente nella natura che ha così modificato l’oggetto da fare in modo che, a nostro avviso, come scrisse Malatesta nel Programma anarchico del 1919, nella nostra epoca la maggior parte dei mali dell’umanità sono causati dalla cattiva organizzazione sociale. Così ci siamo trovati di fronte un nuovo oggetto, un nuova natura: la natura della società, una natura dove il soggetto-organismo umano è quasi interamente l’artefice e il responsabile (scriviamo “quasi interamente” perché ci sono sempre forze non economicizzabili come le carestie, i terremoti, ecc, anche se pure queste posso essere attenuate da una “migliore”, qualsiasi cosa significasse questo termini, organizzazione sociale).
Le ipotesi formulate ci hanno suggerito di determinare il rapporto di classe secondo termini allo stesso tempo così nuovi e ma anche così arcaici: la lotta di classe come lotta per la sopravvivenza, la guerra sociale come lotta per la vita (Decima ipotesi). In particolare questa definizione ci permette di fare congetture anche sul problema ambientale, un tema in cui la teoria storica del movimento operaio classico è assai debole. Nell’Undicesima ipotesi affermiamo che l’ambiente è un problema di specie, ma è causato da una classe. Questo a nostro avviso spiega la trasversalità interclassista dei movimenti ecologisti e ci indirizza verso una migliore azione rivoluzionaria al loro interno. Ovviamente questo vale anche per la guerra (Dodicesima ipotesi).
Nella Tredicesima ipotesi sviluppiamo dei ragionamenti già iniziati nell’Undicesima ipotesi e indirettamente richiamati anche nella Dodicesima. Questo ad indicare che non vi è un consequenzialità univoca fra le ipotesi, né una loro gerarchia. Il problema dell’ambiente, così come quello della guerra e le sue potenti armi, ci indirizzano verso il problema della selezione delle cose da salvare e delle cose da distruggere, rifiutando sia la concezione operaista in cui tutto viene riappropriato sia la concezione primitivista in cui tutto viene distrutto.
Proprio il rifiuto della concezione operaista ci ha portato a sviluppare una lunga catena di ipotesi (dalla Quattordicesima alla Diciottesima) in cui ci confrontiamo con le ultime evoluzioni di tale movimento. Rimane infatti inalterata la tendenza all’appropriazione di tutto, ma viene ora assecondata alle ultime mode del momento: internet, il lavoro cognitivo, ecc. In queste pagine sviluppiamo quello che per noi è un fruttuoso corpo a corpo con una delle scuole filosofiche contemporanee di indirizzo politico più importanti del momento. Ma soprattutto abbiamo l’occasione di denunciare la perversione della società tecnocratica, la tecnologia come demone sfruttatore, ma anche come strumento da utilizzare (nella parte in cui non verrà distrutto) anche per migliorare le nostre condizioni di vita.
Infine, in linea con la svolta dal materialismo determinista al materialismo naturalista, abbiamo affermato che la rivoluzione è una forza della natura. Ripetiamo che non c’è alcuna relazione gerarchica fra le ipotesi, che non c’è alcuna consequenzialità meccanicista, che la logica che le determina è di tipo problematico-ipotetico: le relazioni fra l’ipotesi precedente e la conseguente è che la prima spesso crea dei problemi a cui la seconda tenta di rispondere. In ogni caso si potrebbe andare in direzioni completamente diverse. Questo è particolarmente evidente con l’ultima ipotesi: la rivoluzione come forza della natura non è affatto un punto di arrivo: da essa si sviluppa una esplosione combinatoria di approfondimenti possibili.
Quando vediamo il nordafrica in fiamme, quando pochi indigeni mal organizzati danno sonore lezioni alle maggiori potenze coloniali, quando rialziamo la testa di fronte all’oppressione…noi sentiamo una forza che ci prende e ci scuote, che rende possibile l’impossibile. Questa forza è la natura. E’ la nostra natura che ci obbliga alla dignità anche davanti ad una violenza crudele e insormontabile. Dobbiamo fare i conti con questa forza. Noi siamo i suoi prodotti, ma noi siamo anche i suoi inventori.
La rivoluzione è una forza della natura. La rivoluzione è un uragano. La rivoluzione è una tempesta di sabbia, cambia la geografia delle cose. E’ una potenza invincibile e irresistibile. E imprevedibile.
Quando diciamo che la rivoluzione è una forza della natura, non vogliamo dire che essa è prevedibile e necessaria, che essa avverrà certamente. La rivoluzione non è una forza provvidenziale. Potrebbe anche non arrivare mai. La quarta e la quinta ipotesi hanno chiarito che naturale non significa necessario.
La rivoluzione è una forza della natura, perché l’umanità è un prodotto della natura. L’umanità è anche una forza della natura. E’ un prodotto e al contempo una forza plasmatrice. E’ l’oggetto e il soggetto. Tutto ciò che fanno gli uomini è natura. Ogni organismo è un soggetto libero. In quanto libero, non è prevedibile nelle sue scelte. Come il clinamen di Lucrezio.
Ma la natura, in quanto prodotto, è un prodotto di soggetti liberi. Quindi imprevedibili. Quindi la natura non è prevedibile. Quindi la cospirazione dei suoi soggetti per una sua trasformazione non è controllabile. E quegli stessi soggetti non potranno mai determinare completamente, malgrado la loro libertà, i risultati oggettivi del loro movimento. Perché nello stesso momento in cui soggettivamente si ribellano diventano una forza della natura, un oggetto quindi. Da un lato, questa forza li domina. Da l’altro, essa è un loro prodotto libero. Sono liberi sia loro che il prodotto.
Così ci troviamo, uno davanti all’altro, noi e il nostro prodotto. Ma noi siamo la stessa cosa. Solo che a volte ci sembra un’impresa impossibile, a volte ci sembra oggettivamente impossibile cambiare le cose, liberarci dall’oppressione. Ci sembra qualcosa di irrealizzabile. E poi, all’improvviso, c’è un salto qualitativo. Siamo finalmente di nuovo in piazza, siamo finalmente capaci di rovesciare l’ordine costituito.
La rivoluzione è una forza della natura perché di fronte al pericolo per la nostra stessa sopravvivenza – la fame, le radiazioni, la guerra – la rivoluzione diventa un istinto. Noi non siamo più solo animali sociali. Non siamo più solo animali politici. Noi diventiamo animali rivoluzionari. La rivoluzione è un istinto che la natura ci da per la lotta per la vita.
Noi dobbiamo allenare questo istinto. Dobbiamo studiare. Dobbiamo combattere ogni giorno. Ma senza la pretesa di determinare esattamente quando essa arriverà.
La rivoluzione è sempre in moto. Ma non è detto che arriverà da qualche parte. Essa può spiazzare le previsioni dei padroni del mondo. Può far saltare i loro calcoli. Li costringe all’inseguimento. Bombardare quando fa comodo il dittatore, quando fa comodo i rivoluzionari. Lo sgomento del governo USA e la rabbia verso i propri servizi segreti per non aver capito cosa stava per succedere nel mondo arabo è indicativo.
La rivoluzione è una forza della natura. Potente e imprevedibile.
NOTA METODOLOGICA
Non abbiamo fatto citazioni dirette non certo per presunzione, perché pensiamo di aver creato qualcosa di completamente nuovo e che non ha debiti con nessun altra scuola filosofica del passato. Piuttosto perché dovremmo citare così tanto e così tanti che da un punto di vista miseramente stilistico questo documento sarebbe risultato completamente rovinato. A meno di non dover fare una cernita, citare qualcosa e qualcosa no, ma questo sarebbe stato ingiusto verso i “dimenticati”.
Pertanto i numerosi rinvii e i numerosi prestiti quando ci sono, molto spesso per la verità, li facciamo con le nostre parole, dicendo ad esempio “Tizio dice che…”, senza aprire le virgolette, mettere le note, ossequiare le case editrici in cui sono state pubblicati i brani tratti, ecc.
Per quanto riguarda il metodo in senso proprio delle nostre ricerche, come è chiaro la nostra procedura segue la via ipotetica. Questo per due ragioni, ragioni scientifiche e politiche in senso estremamente lato. Sul piano scientifico, noi siamo convinti che il metodo ipotetico sia il metodo migliore con cui la scienza debba procedere, in contrapposizione con il metodo assiomatico e ancor di più con l’oscurantismo dogmatico. Sul piano “politico” in un senso davvero vasto del termine, noi scegliamo di precedere “per ipotesi” per una ragione che è anche strategica e contingente: in altre parole, in questa fase noi non vogliamo e non possiamo divulgare la Buona Novella che illumini le sorti dell’umanità e la redima dalla sua miseria. E’ così incerta e dinamica la realtà, che ci sembra un dovuto atto di modestia denunciare la natura congetturale delle nostre proposte.
Le ipotesi non sono esposte in maniera gerarchica. Esse non rappresentano né la piramide dei dogmi, che discende dal più importante ai meno importanti, né la linea meccanica della deduzione da assiomi. Le ipotesi vengono formulate esclusivamente per risolvere problemi.
Ad esempio, al problema: Quale orizzonte per la conoscenza? Noi proponiamo la Prima ipotesi, il materialismo. Ma tale ipotesi, come ogni ipotesi, non è valida una volta per sempre, ma è sempre soggetta a criticità. Quindi la ricerca non si ferma alla prima ipotesi, poiché ogni ipotesi – come dice Cellucci – costituisce un nuovo problema, che come tale deve essere risolto: esso può essere risolto formulando un’altra ipotesi, in un processo potenzialmente infinito. Di fronte al nuovo problema costituito dall’ipotesi materialista, noi abbiamo formulato la Seconda ipotesi: il naturalismo. Tali ipotesi ci hanno permesso di affrontare un problema epocale della filosofia e della scienza: Che cosa è la conoscenza? A tale problema abbiamo risposto con la Terza ipotesi: la conoscenza è soluzione di problemi. Ma anche in questo caso, la nostra Terza ipotesi non può costituire un punto di arrivo certo e definitivo, ma solo un nuovo punto da cui ripartire. Ad esempio si costituisce subito un nuovo problema: Quale è il ruolo delle emozioni nella conoscenza in generale, e in particolare nella lotta politica? A questo problema abbiamo cercato di dare risposta con la Quarta ipotesi della Scuola Umbra.
L’ipotesi naturalista ci propone a sua volta una serie di problematicità a cui non potevamo non tentare di rispondere. Uno di questi problemi è ad esempio il problema del rapporto fra il concetto di natura e quello di necessità logica. A questo problema abbiamo tentato di rispondere con la Quinta e con la Sesta ipotesi. L’ipotesi del materialismo naturalista unita all’ipotesi euristica ci pone problemi anche nel campo del rapporto e dello statuto ontologico degli altri animali e in generale degli esseri viventi. Nella Settima ipotesi abbiamo dedotto che, se la conoscenza è soluzione di problemi e nella natura questo significa che il primo problema da risolvere è il problema della sopravvivenza, allora anche gli altri organismi hanno delle facoltà razionali più o meno sviluppate e hanno una conoscenza per quanto approssimativa dell’ambiente circostante. In quanto soggetti razionali vanno dunque rispettati.
L’intreccio delle congetture che abbiamo sviluppato da luogo a sempre nuovi problemi, un problematicità che rivendichiamo come costruttiva: infatti, tali problemi ci costringono a formulare delle ipotesi nuove e molto importanti. Ad esempio ci permettono di definire il rapporto dialettica fra l’uomo e la natura. Tale definizione (Ottava ipotesi) non sarebbe stata possibile se non avessimo sottolineato il fatto che ciò che è naturale non significa che è logicamente necessario, se non avessimo liberato la natura dal determinismo. Solo grazie alle ipotesi sviluppate e ai gravi ma stimolanti problemi che hanno creato, che abbiamo potuto almeno abbozzare una relazione dialettica ma non per questo deterministica fra l’umanità e la natura, soggetto e oggetto.
Se l’uomo è parte della natura, ma è anche come tutti gli altri organismi – anzi certamente più di ogni altro – soggetto demiurgico in grado di plasmarla di modificarla modificandosi (dato che egli ne è appunto parte), allora è evidente che ciò che è umano è naturale. Nella Nona ipotesi però abbiamo messo in guardia da una facile e meccanica deduzione: il fatto che l’uomo è natura non ci libera dall’onere di spiegare che “razza” di natura è, non ci esula dal determinare meglio una natura che non può rimanere quella che Hegel chiamerebbe la notte dove tutte le vacche sono nere. L’uomo è un soggetto così dirompente nella natura che ha così modificato l’oggetto da fare in modo che, a nostro avviso, come scrisse Malatesta nel Programma anarchico del 1919, nella nostra epoca la maggior parte dei mali dell’umanità sono causati dalla cattiva organizzazione sociale. Così ci siamo trovati di fronte un nuovo oggetto, un nuova natura: la natura della società, una natura dove il soggetto-organismo umano è quasi interamente l’artefice e il responsabile (scriviamo “quasi interamente” perché ci sono sempre forze non economicizzabili come le carestie, i terremoti, ecc, anche se pure queste posso essere attenuate da una “migliore”, qualsiasi cosa significasse questo termini, organizzazione sociale).
Le ipotesi formulate ci hanno suggerito di determinare il rapporto di classe secondo termini allo stesso tempo così nuovi e ma anche così arcaici: la lotta di classe come lotta per la sopravvivenza, la guerra sociale come lotta per la vita (Decima ipotesi). In particolare questa definizione ci permette di fare congetture anche sul problema ambientale, un tema in cui la teoria storica del movimento operaio classico è assai debole. Nell’Undicesima ipotesi affermiamo che l’ambiente è un problema di specie, ma è causato da una classe. Questo a nostro avviso spiega la trasversalità interclassista dei movimenti ecologisti e ci indirizza verso una migliore azione rivoluzionaria al loro interno. Ovviamente questo vale anche per la guerra (Dodicesima ipotesi).
Nella Tredicesima ipotesi sviluppiamo dei ragionamenti già iniziati nell’Undicesima ipotesi e indirettamente richiamati anche nella Dodicesima. Questo ad indicare che non vi è un consequenzialità univoca fra le ipotesi, né una loro gerarchia. Il problema dell’ambiente, così come quello della guerra e le sue potenti armi, ci indirizzano verso il problema della selezione delle cose da salvare e delle cose da distruggere, rifiutando sia la concezione operaista in cui tutto viene riappropriato sia la concezione primitivista in cui tutto viene distrutto.
Proprio il rifiuto della concezione operaista ci ha portato a sviluppare una lunga catena di ipotesi (dalla Quattordicesima alla Diciottesima) in cui ci confrontiamo con le ultime evoluzioni di tale movimento. Rimane infatti inalterata la tendenza all’appropriazione di tutto, ma viene ora assecondata alle ultime mode del momento: internet, il lavoro cognitivo, ecc. In queste pagine sviluppiamo quello che per noi è un fruttuoso corpo a corpo con una delle scuole filosofiche contemporanee di indirizzo politico più importanti del momento. Ma soprattutto abbiamo l’occasione di denunciare la perversione della società tecnocratica, la tecnologia come demone sfruttatore, ma anche come strumento da utilizzare (nella parte in cui non verrà distrutto) anche per migliorare le nostre condizioni di vita.
Infine, in linea con la svolta dal materialismo determinista al materialismo naturalista, abbiamo affermato che la rivoluzione è una forza della natura. Ripetiamo che non c’è alcuna relazione gerarchica fra le ipotesi, che non c’è alcuna consequenzialità meccanicista, che la logica che le determina è di tipo problematico-ipotetico: le relazioni fra l’ipotesi precedente e la conseguente è che la prima spesso crea dei problemi a cui la seconda tenta di rispondere. In ogni caso si potrebbe andare in direzioni completamente diverse. Questo è particolarmente evidente con l’ultima ipotesi: la rivoluzione come forza della natura non è affatto un punto di arrivo: da essa si sviluppa una esplosione combinatoria di approfondimenti possibili.
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