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lunedì 27 giugno 2011

QUESTIONI DI LOGICA


In risposta a Michele Fabiani

di G. Rosati

1. Essenza e Sostanza
2. Divisione del sapere
3. Homo Faber

Premessa
Rispetto alle cose, la Grammatica sta ai loro nomi come la Matematica sta ai loro numeri, e  come la Logica sta ai loro concetti.
Che poi siano nomi, numeri o concetti delle cose, ciascuno dei relativi saperi e discorsi su di essi hanno ugualmente in comune due cose: la classificazione dei tipi di nomi-numeri-concetti esistenti, nonché l'enunciazione delle loro regole d'uso corretto. Quindi, che si parli di fatti quotidiani, di scienze naturali o di storia e filosofia umana, sarebbe sempre bene sapere come si dice ciascuna cosa che si dice.

E vengo al tema-problema dell'evidente necessità di un «vocabolario comune» (Michele, Quest ontolog) sul quale sarebbe bene accordarci. Veramente non è però proprio esatto dire così, perché un vocabolario esprime in realtà giusto una relazione d'ordine (alfabetico) tra la successione delle parole. Del tipo di quella che esiste anche nella successione dei numeri, appunto ordinati in modo tale da capire quale, tra due o più di essi, viene "prima" o "dopo" l'altro. Per cui il vocabolario è una rubrìca delle parole, e non una loro classificazione, com'è invece la Grammatica con i nomi oppure la Logica con i concetti. Quindi a voler essere un po' più precisi accordiamoci casomai su una Grammatica o/e Logica «comune»! In ogni caso è proprio per questo nobile scopo che mi appresto a proporre il seguente contributo di chiarificazione su ciò di cui andiamo discutendo. 
Per quanto riguarda la mia posizione dico subito che non è originale. Infatti, benché userò parole mie, tengo però conto principalmente della lezione logica di Aristotele stesso, e non di altro. O meglio, ciò di cui mi appresto a dire riguarda una Logica che sia valida oggi e per oggi, è ovvio, e tuttavia la sua ispirazione è senz'altro quella che ho detto, almeno nel senso in cui io ho inteso questo lato di Aristotele. Ora, per precisare meglio questa cosa, tanto per cominciare non c'è di meglio che dire come io la pensi in modo assai diverso da Michele, tanto per cambiare. Lo dico non dimenticando che su questo Autore una bozza di accordo lo abbiamo già raggiunto, secondo me importante ma non ancora definito come si deve. Ricordo anzi che la discussione sul filosofo è iniziata qualche giorno fa quando ho attirato l'attenzione sul fatto che un comune buon punto di partenza su cui accordarci potesse essere la partizione delle diverse conoscenze filosofiche quale si presenta già ramificata nella stessa opera complessiva dello Stagirita; quella stessa che se è per questo anche Hegel poi ha adottato pari passo nel proprio sistema filosofico. Ecco, è proprio rispondendo a quella mia sollecitazione che Michele da un lato ha positivamente condiviso quella proposta, che qui proverò a rafforzare; mentre dall'altro ha detto la sua appunto su Aristotele, con dichiarazioni che invece io personalmente proprio non condivido. 
A questo proposito egli sostiene (3/6) che: «Per Aristotele (e anche per me, come per ogni materialista) esiste solo una realtà, un solo mondo». Lo dice in un modo, quasi che volesse spacciare il filosofo per un materialista, il che non è proprio il caso! Michele esalta il presunto "Monismo" aristotelico come un passo avanti rispetto a quello di Parmenide, in questo senso però, che avrebbe riconosciuto come nell'unico mondo esistente «ci sono differenze di forme, di qualità, di quantità, anche enormi, ma non ontologiche», perché del mondo uno quelle differ sono giusto «articolazioni al suo interno» (5/6). Ora, è vero che Aristotele era un "monista", rispetto allo sfacciato Dualismo platonico (e lascio correre qui il "Monismo" che Moreno ha attribuito allo stesso Platone). O quantomeno, come specifica ulteriormente Michele, Aristotele è stato un "immanentista" (nel senso che negava l'esistenza "trascendente", cioè separata, di alcunché). Ma il guaio è che tutto ciò non toglie una virgola al fatto che questo filosofo nella sua Fisica e Metafisica fosse fissato con una misteriosa «sostanza soprasensibile» accanto o sopra a quella sensibile normale, una "forma-essenza-sostanza immateriale" (clamorosa contraddiz non solo logica ma anche proprio grammaticale); "qualcosa" insomma che sopperisse alla mèra, nuda, per lo più inerte materialità delle cose esistenti. "Qualcosa" su cui per secoli la filosofia si è baloccata, e con cui molti filosofi continuano a fare ancora oggi. Ma per capire quale sia l'estrema ambiguità di Aristotele su queste materie credo basti andarsi a vedere la concezione alquanto singolare che egli ha della materia, anche questa non a caso presa di peso dal Timeo platonico. 
Michele poi richiama anche lui il paragone con Hegel, però di tutt'altro tipo rispetto a quello che ho fatto io. Egli, detto con parole mie, sostiene in pratica che, come il "Monismo" immanentista di Aristotele cerca di conciliare un teorico "Motore-Immobile" (cioè un altro patente controsenso grammatico-logico-filosofico) con tutti i reali movimenti del mondo; così allo stesso modo il "Monismo" immanentista di Hegel concepisce un altro controsenso: «un unico mondo in cui l'Idea e la Realtà siano identici». Due assurdità bell'e buone insomma, che però chissà com'è Michele avvolge di un manto di serietà, come se fossero concezioni degne di essere prese in considerazione o da cui trarre chissà quale insegnamento. 
Egli evoca inoltre nientemeno che la famigerata Fisica aristotelica, per giustificare il proprio Monismo filosofico, un'opera e una concezione che ha dominato e infettato per due millenni la scena della "scienza" occidentale, prima che Galilei ci facesse finalmente i conti una volta per tutte. Laddove Michele invece la ritira fuori portandola come esempio: «Nella Fisica Aristotele spiega chiaramente che non possono esserci differenze ontologiche fra le cose: non c'è nulla fuori dalla natura (in greco "Phisys")» (3/6). Ebbene, prima di tutto come al solito Michele non cita la fonte delle sue roboanti dichiarazioni, per cui d'ora in poi è pregato di indicare dove si possa verificare quello che egli sostiene a proposito degli altri filosofi. Il che ovviamente, proprio come accorgimento metodico, vale allo stesso modo per tutti quanti. Poi, a parte le formalità gli chiedo di nuovo: ma come, e il "Motore immobile" che la muove, la «natura», non sta forse «fuori» di essa? E non c'è forse una chiara "differenza ontologica" tra le due cose, anche ammesso che restiamo nell'immanenza senza perderci nei cieli della trascendenza? E lo credo bene che il "Motore-Dio" di Aristotele è "immanente" e non separato, perché come il filosofo vuole far credere quella suprema "sostanza soprasensibile" di cui parla, pur stando ferma muoverebbe però proprio fisicamente il mondo intero! 
Ecco perché sono perplesso del fatto che per spiegare il proprio Monismo materialistico Michele debba richiamarsi a questa roba assurda e astrusa, ad Aristotele e Hegel, che in realtà non c'entrano proprio niente con noi, o almeno con me. Io piuttosto capisco con ciò da dove salta fuori la "scientificità" della sua concezione della Natura (appunto come Phisys, Fisica nel senso aristotelico e più antiquato possibile del termine), nonché del "naturalismo" filosofico conseguente che egli propone nel suo Manifesto. Lui infatti, proprio come il filosofo greco solo che più di duemila anni dopo, non vede oltre la volta celeste, così che non riesce a pensare che ben prima ben oltre di quella Fisica naturale veget-anim di cui lui e l'antico filosofo parlano, c'è la sfera minerale e meccanica dell'Astrofisica universale, uno spazio infinito popolato di infiniti corpi biologicamente inerti ma pieni di energia chimico-fisica, insomma un mondo in confronto al quale la Natura, la vita e noi stessi siamo poco più di un'eccezione accidentale. 
Così, con simile suo "Monismo" di stampo aristotelico, Michele si rifà a quanto di peggio si trovi in Aristotele, trascurando invece completam quanto invece di ancora attuale vi si può trovare. Per questo mi sono dilungato tanto, appunto perché anch'io qui ho dichiarato l'ispirazione aristotelica di quello che sto per dire, e dunque era il caso che provassi a chiarire la differenza abbastanza marcata che ci corre tra la mia posizione e quella del "collega" nei confronti dell'Autore greco. Al contrario delle dichiarazioni di Michele, quindi, ci tengo a precisare che da parte mia rifiuto e rigetto decisamente tanto la Metafisica filosofica quanto la "scienza" Fisica di Aristotele, opere del cui integrale contenuto nemmeno una virgola può avere il benché minimo valore per me ancora oggi. Il che non è una novità, perché già nel Seicento Galilei aveva detto la stessa cosa. Invece, e non so se anche questo a differenza di Michele, io qui faccio tesoro della Logica aristotelica, con particolare riferimento al significato che egli attribuisce ai termini quali "essenza" e "sostanza". Che sono proprio quegli stessi usciti fuori dalla discussione tra Michele e Moreno, concetti controversi ma che effettivamente sono centrali della filosofia aristotelica, e che secondo me, se intesi nell'accezione logica originaria in cui li ha formulati Aristotele stesso, possono andare bene ancora per noi oggi, qualora li volessimo usare. Quindi è la Logica, nonché la correlata nozione di divisione dei saperi, ciò che apprezzo di Aristotele, e da cui appunto traggo spunto per le riflessioni che seguono. Ricordo appena infine come il più importante e anche più trascurato lascito del grande filosofo sia l'Economica, la quale si merita infatti un discorso a parte e in ogni caso successivo a questo. Aggiungo e concludo che quello che sto per dire è influenzato non solo dalla lezione logica di Aristotele, perché qui tengo conto anche della "lezione" ontologica di Michele (di cui questa volta almeno in parte parlo bene!), nonché delle obiezioni sollevate da Moreno alla medesima. 

1. Essenza e Sostanza
Ebbene è Aristotele stesso che nella Logica fa una distinzione e nella Metafisica una confusione tra i seguenti due termini: essenza e sostanza di una cosa. Quello che mi propongo è di ripetere con parole mie questa stessa distinzione che egli pone sul tappeto, diciamo così solo aggiornata alle esigenze di un linguaggio odierno. Infatti non è che ripeto Aristotele a pappagallo, bensì cerco di dare una versione attuale della sua concezione, tale che possibilmente tolga di mezzo sia gli equivoci in cui su questa materia il filosofo stesso è caduto, e sia quelli in cui possiamo cadere noi se e quando usiamo termini simili. 
Ora, Michele con la distinzione che ha messo in luce tra essenza ed esistenza ha già fatto un bel passo avanti, anzi ha praticamente detto quasi tutto. Egli usa anche un altro termine per dire la stessa cosa: essenza ed essere. Cui manca giusto la terminologia originaria di Aristotele stesso: essenza e sostanza appunto, che comunque ancora una volta esprime la stessa cosa non cambiando se non la parola. Ma Michele aggiunge anche dell'altro, che l'essenza non è l'esistenza-essere-sostanza, e quindi non va confusa con essa. Infine egli conclude come sia per questo che è l'esistenza-essere-sostanza della cosa, e non la sua essenza, a costituire la materia od oggetto di competenza dell'Ontologica. 
Il che fin qui è tutto esatto e mi complimento ancora con il nostro giovane filosofo per aver detto correttamente tutte queste cose. Solo che poi come l'ho già avvertito egli "scivola e cade" sull'essenza. Egli infatti ci ha spiegato che cosa l'essenza non sia, però che cosa sia lo lascia in sospeso, mentre quello che dice su di essa è quantomeno ambiguo. Egli sostiene innanzitutto che «l'essenza delle cose (...) è la logica dell'essenza Platonico-Hegeliana» (2/6). A differenza mia che ritengo piuttosto come l'essenza debba intendersi nel senso appunto aristotelico del termine, e precisamente il seguente: «l'essenza c'è solamente di quelle cose la cui nozione è una definizione» (Metafisica, VII, 4, 1030a). Il che tradotto significa la definizione del concetto di una cosa. Ecco che cos'è l'essenza. Aristotele  aggiunge poco oltre come la definizione essenziale sia un modo-metodo di esprimere «il che cos'è delle cose». Argomenti che, per quanto le citazioni siano tratte dalla Metafisica, sono senz'altro di competenza della Logica. È direttamente da questo filosofo che traggo quindi simile concezione dell'essenza come della definizione di una cosa. Ci arriverò più avanti, ma intanto anticipo che qui parlo proprio di quel metodo dialettico della definizione come divisione-differenza dei concetti, di cui ci siamo già occupati tra di noi parlando di Platone. Metodo che infatti, sia detto per inciso, il nostro filosofo ha tratto pari passo dal suo Maestro. Solo che poi è lui, Aristotele, ad introdurre anche linguisticamente quella distinzione di cui sto parlando. Distinzione-differenza che a questo punto si capisce essere tra l'essenza logica e la sostanza ontologica di una cosa, o più in generale, che è lo stesso, tra una Logica dei concetti e un'Ontologica della realtà.
Avverto subito che non si tratta di un nuovo "dualismo", anticipando che l'essenza, pur non essendo la sostanza reale, però è pur sempre della sostanza, di cui fornisce appunto la definizione logica. Aristotele parla chiaro: «l'essenza appartiene primieramente e assolutam alla sostanza» (Ibid), la quale ultima è poco prima esplicitamente definita come «la realtà effettiva delle cose» (corsivo mio), che si distingue appunto dalla diciamo così idealità mentale della loro essenza. Ma su questo ci arriverò più avanti, facendo un'obiezione a Michele. 
Per ora mi concentro piuttosto ad approfondire la differenza che con simile impostazione si riesce a mettere in luce. Ebbene alla distinzione tra i due "oggetti" o nomi-concetti di partenza, essenza e sostanza, corrisponde quella tra le due rispettive forme di conoscenza che di quegli "oggetti" abbiamo: Logica e Ontologica. Quindi distinguiamo la definizione logica dell'essenza dalla consistenza ontologica dell'esistenza di una stessa cosa, il concetto ideale dall'essere reale. Vediamo così anche come l'essenza sia qualcosa di cerebrale, di psichico, mentre la sostanza è qualcosa di corporale, di fisico. O ancora che, mentre l'essenza è una, e quando è corretta ha una validità logica universale; invece la sostanza è assai molteplice, tale per cui ciascuna sostanza è un alcunché di definito, di individuale e a sé stante. Ciascuno di noi è una sostanza, e al limite anche ciascun sasso lo è. Infine, notiamo anche che l'essenza, quale definizione logica di un concetto, è la cosa per noi (nel senso letterale, e non kantiano del termine), sarebbe a dire la cosa così com'è per la conoscenza, dentro la nostra testa; mentre la sostanza consistente-esistente-essente è la cosa in sé stessa per così dire in carne e ossa, appunto com'essa è ed esiste fuori di noi, indipendentemente dal fatto che noi la sappiamo o meno. Ecco, a me pare che così, con l'accortezza di simile distinzione-differenza tra una Logica dei concetti essenziali e un'Ontologica delle cose sostanziali, si possa parlare usando gli aggettivi appropriati con molta più chiarezza. Perché se non la si ha presente, quella differenza, allora è difficile che si possa fare un uso corretto di quei termini.
Laddove la confusione di Michele, giustamente ripresa da Moreno, si evince da questa sua frase: «Marx parla di differenze essenziali fra l'uomo e l'ape: il lavoro. Tali differenze riguardano [però] l'essenza dell'ente in esame, non la sostanza» (2/6). Per generalizzare diciamo che la differenza che distingue l'uomo dagli altri animali è il lavoro. Benissimo, solo che poi Michele aggiunge: quella differenza riguarda l'essenza, sì, ma non la sostanza. Il che a rigor di logica vuol dire: il lavoro distingue l'uomo, sì, solo logicamente però! Perché in realtà egli ciò nonostante resta sostanzialmente un animale come gli altri! Così il lavoro non è la differenza nel senso di uno spartiacque che ha significato il "salto ontologico" dalla Natura alla civilizzazione umana, bensì una mèra e indeterminata "qualità naturale", tale per cui per forza poi anche tra l'architetto e l'ape alla fine non c'è nessuna differenza sostanziale! Per cui già su questo apprezzerei che Michele dia una risposta.
Egli poi conclude quella frase con un'ulteriore precisazione: «Marx non dice che l'uomo e l'ape vivono su due mondi ontologicamente separati». Certamente, l'ape e l'uomo non vivono così, ma chi lo ha detto questo? Nessuno, a parte Michele stesso! Infatti come potremmo sostenere una cosa simile, noi che per princìpio dichiariamo che il mondo è uno, a meno che non siamo proprio rincoglioniti? Molto semplicemente qui non è affatto di «mondi» che si parla, bensì appunto della differenza specifica della specie umana rispetto agli altri generi di vita animale. Una differenza che però, come la rivela la definizione dell'essenza logica, così dovrà anche per forza corrispondere all'esperienza della sostanza-esistenza ontologica dell'uomo. Infatti non esiste un'essenza che non sia di una sostanza, a meno che non voglia essere un'essenza campata in aria. Un'essenza di per sé non ha alcun senso se privata del riferimento alla sostanza reale di cui rappresenta la definizione concettuale. E allora com'è possibile quello che dice Michele? Come può la formulazione essenziale di una differenza riguardare solo la definizione logica della cosa, ma non la cosa stessa cui quella definizione pure si riferisce? E anche se infine lo potesse, ma che senso avrebbe? Sarebbe proprio come parlare di un concetto che non si riferisce ad alcunché di reale. 
La verità quindi, lo ripeto, è che l'essenza non è la sostanza, come ha osservato giustamente Michele, bensì della sostanza, come aggiungo io qui. Il che però smaschera la contraddizione in cui cade Michele stesso se dice che ad una differenza essenziale della definizione non corrisponde una differenza sostanziale delle cose. Più avanti prenderò di petto la definizione logica dell'essenza di uomo, cercando di mostrare proprio come venga "calcolata" attraverso il metodo logico-dialettico della divisione concettuale. Ebbene spero in quell'occasione di riuscire a dimostrare che, se la definizione di qualcosa è corretta e vera, allora la differenza essenziale che essa mostra non può essere altro che corrispondente ad una differenza sostanziale della cosa definita. Perché se un'essenza concettuale che abbiamo in testa, non inerisce alla sostanza di una cosa com'è in realtà, allora è un vuoto guscio logico, la mèra elucubrazione mentale di un soggetto chiuso in sé che non fa riferimento ad alcunché di realmente esistente al di fuori. L'essenza quindi, la sua definizione, è un'operazione logica che si riferisce a qualcos'altro, cioè sta dentro la nostra testa ma guarda fuori, a qualcosa o a qualcuno appunto, senza di che non avrebbe alcun senso.
A questo punto, data la stretta correlazione che c'è, anticipo un attimo il discorso sulla divisione dei saperi per fare un'altra obiezione al nostro Michele. Qui ormai è chiaro come l'essenza concettuale di una cosa sia di pertinenza della Logica, mentre la sua esistenza-essere-sostanza materiale lo sia dell'Ontologica. Invece Mich anche qui fa una discreta confusione tra le due cose. Egli mi dice: «Se tu mi proponi di divedere la RICERCA fra le RICERCHE LOGICE, le RICERCHE DI ONTOLOGIA NATURALE e le RICERCHE DI ONTOLOGIA SOCIALE io sono daccordo. Se tu però proponi di divedere non la ricerca bensì la REALTA' in MONDO DELLA LOGICA, MONDO DELLA NATURA e MONDO SOCIALE ovviamente non posso essere daccordo» (3/6). Ebbene, a parte che non esiste alcun «MONDO DELLA LOGICA», ma casomai solo «RICERCHE LOGICE» sul mondo! Ma poi che cosa diavolo significa quella distinzione-separazione che egli fa tra la "ricerca" e la realtà"? Che cos'è infatti la ricerca, se non quella della realtà? O forse che è su qualcos'altro? Certo che no! Infatti la "ricerca" di cui egli parla sta alla "realtà" proprio come l'essenza sta alla sostanza, dove la prima non sta a sé, ma esiste solo come qualcosa che si riferisce ad altro. Michele stesso ammette che si possano fare ricerche logiche sull'ontologia degli esseri sia naturali che sociali, il che è già un progresso; poi però quelle che da tali ricerche emergono egli le considera differenze puramente logiche, negando che abbiano anche e soprattutto una valenza ontologica. Ancora una volta proprio come se egli dicesse che la differenza tra l'uomo e gli altri animali esiste solo dentro la nostra testa, e non anche nella realtà. In seguito egli chiarisce ulteriormente la sua controversa posizione: «Io penso che ci siano differenze qualitative, ma non ontologiche. (...) Le differenze qualitative sono fra due oggetti che hanno un'essenza diversa» (5/6). Appunto a confermare che egli ammette l'esistenza di differenze essenziali ("qualitative" dice lui, mentre io dico logiche), e però nega che esse corrispondano a differenze di sostanza tra le cose. Peccato giusto che così è come dire che due essenze diverse si riferiscono ad una sola singola sostanza, il che, di nuovo, non ha proprio alcun senso.
E su che si basa tutto il suo impianto teorico? Ecco: «Ci sono solo due concetti ontologicamente diversi fra di loro: l'essere e il nulla» (2/6). Da tale presupposto di chiara e assai dicutibile matrice parmenidea egli trae tutte le sue conseguenze: tutto è essere, quindi niente è nulla. Grazie! Solo che così, esattamente come Parmenide e Zenone, anche Michele è costretto a negare l'evidenza più ovvia. Infatti per lui riconoscere le differenze ontologiche che pure le definizioni logiche mettono in chiara luce, vorrebbe dire attribuire l'essere solamente all'uomo, e relegare invece gli altri animali nel "nulla", cioè fare come se non esistessero proprio! Riconoscere le differenze anche reali, oltre che logiche, tra la Natura animale e la società civile, egli sostiene, sarebbe «come se si trattasse di due regni ontologici diversi, come se il sociale fosse il regno dell'essere e il naturale quello del non-essere, privo di ogni dignità ontologica, semplicemente assenza di realtà» (3/6). Ma sull'argomento di essere e nulla ci arriverò verso la fine. Qui aggiungo solo che su questa base Michele deduce che sarebbe poi una forma di "antropocentrismo" evidenziare le pur profonde differenze che ci sono tra il mondo naturale in generale e quello umano in particolare. Ebbene gli faccio giusto notare che oggi non si tratta più di geo, elio, o antropocentrismo, perché ormai sappiamo che è l'Universo stesso a non avere limite, e quindi nemmeno un "centro", ma proprio nel senso spaziale, geometrico del termine. Figuriamoci quindi quant'è pretestuosa anche quest'altra accusa che Michele rivolge a quelli che non la pensano come lui. Per quanto mi riguarda lo assicuro che io detesto e rifiuto forse anche più di lui le visioni "antropocentriche" del mondo, e credo di averlo già mostrato abbastanza nei miei contributi precedenti. Ma questo vuol forse dire che è proibito distinguere le differenze tra le cose? Evidentemente no, perché questa è anzi una nostra peculiarità esclusiva. E che cos'è la conoscenza se non saper distinguere tra una cosa e l'altra, e la confusione se non l'ignoranza delle differenze? Laddove Michele col suo rigido e monotono "naturalismo" impedisce tutto ciò. A suo parere distinguere tra Universo, Natura e società non è una posizione solo filosoficamente, bensì anche «scientificamente sbagliata» (31/5). Egli ribatte che tutto è «natura», da quindici miliardi di anni a questa parte! Con la conseguenza però che anche i microbi sono esseri liberi e dediti alla conoscenza, che l'istinto dell'ape non si distingue in sostanza dall'arte umana se non per una generica "qualità" del lavoro, e che le tappe fondamentali dell'Evoluzione biologica sono prese per "Rivoluzioni naturali" del tipo di quelle sociali degli uomini. Confusione, solo e nient'altro che questo! Inoltre, se io distinguo la differenza tra uomo e Natura cadrei in una forma di "antropocentrismo". Ma se fosse così allora, io che ad esempio distinguo anche un corpo inerte fatto di atomi da uno vivente fatto di cellule, vuol forse dire che con ciò pecco di "biolocentrismo"? Tutto questo non sta in piedi, e in ogni caso, se è per questo, Michele si preoccupi allora del suo "naturocentrismo". 
Egli insiste sul fatto che «le differenze qualitative ineriscono le qualità degli enti» (2/6), mentre le differenze ontologiche riguarderebbero l'essere esistenti o meno degli enti medesimi. Ora, a parte l'estrema fumosità dell'argomentazione, fondata letteralmente sul "nulla" ontologico come se fosse qualcosa. Però se è per questo allora il suo discorso vale, ugualmente come per le «qualità», anche per le quantità, modalità, spazialità, temporalità e tutte le altre categorie logiche essenziali degli enti, che già Aristotele aveva per primo elencato. Così è proprio come se sulla scia di Michele io dicessi: "le differenze quantitative ineriscono la quantità degli enti"; oppure: "le differenze spaziali ineriscono alla spazialità degli enti", e così via. E che significato hanno di per sé tutte queste frasi simili? Assolutamente nessuno, e sono anzi delle vuote tautologie. Certo, Michele lo dice che è di differenze «degli enti» che sta parlando, ma senza avvedersi che l'ente è appunto la sostanza, senza avvedersi che la qualità non esiste se non come l'attributo o predicato di una tale sostanza, proprio come lo è la quantità, la modalità e tutte le altre categorie, le quali tutte insieme costituiscono l'essenza logica di una sostanza reale. Per cui, di nuovo, una differenza essenziale, non importa se di qualità, quantità eccetera, affinché sia vera e utile alla conoscenza, non può essere altro che sostanziale, cioè riferirsi a una differenza della qualità di qualche cosa di reale. Altrimenti, avulsa dall'oggetto cui è riferita, l'essenza è un puro sofismo logico. Esattamente com'è quello di Michele quando della sostanza delle cose dice che ontologicamente sono soltanto o esistenti oppure no, lasciando così alla conoscenza il compito di indagare solo logicamente che cosa esse siano e come si possano distinguere tra loro, perché nella realtà l'unica differenza che ci è consentito riconoscere è quella tra l'essere e il "nulla", che peraltro non hanno niente in comune. 
Infine, per mostrare quanto il nostro precoce filosofo sia fuori strada, approfondisco un attimo un altro dettaglio sensibile. Michele sostiene che: «L'ape e l'architetto non sono fatti di sostanze differenti» (2/6). No certo, ma non per altro che sono fatti entrambi di cellule animali. Laddove l'ape e il fiore invece sì, guarda un po', sono fatti di sostanze differenti, cellule animali e vegetali. Michele vuol forse negare che questa sia una differenza sostanziale? Eppure quei due tipi di esseri non vivono in "regni separati"! Così come anche i corpi inerti e quelli viventi, non sono forse fatti di materia-sostanza differente, pur trovandosi tutti quanti insieme nello stesso unico mondo? Il grave difetto di Mich è che prende le distinzioni tra le cose come una separazione e gerarchia di "mondi", per salvarci dalla quale possiamo soltanto dire o che tutto è oppure che niente non è, per cui ci sarebbe un'uguaglianza ontologica dell'uomo con tutto il resto del mondo, non solo con gli altri animali superiori o con "l'ape", ma anche con i batteri, e se lo seguiamo fino in fondo perfino con i corpi vegetali e con quelli minerali universali. Ma se tutto fosse "uguale" come dice lui allora a noi non resterebbe altro che tacere, perché è solo attraverso l'individuazione delle differenze che la conoscenza può procedere e progredire. A me pare che ormai non ci siano più dubbi di quanto qui siamo al livello di quel fossile filosofico di nome Parmenide. Sulla base del quale non si può appunto riuscire a vedere altro che differenze logiche di "qualità", quantità eccetera; differenze concettuali o categoriali certamente essenziali, sì, ma solo nella misura in cui corrispondono alla sostanza reale delle cose, perché altrimenti non valgono un bel niente. Il guaio è che il "Monismo" di Michele è così rigido da costringerci ad assumere in un certo senso la parte di Platone, che suo malgrado fu costretto a contestare l'affezionato Parmenide, dovendo riconoscere per forza come nel mondo esistano il movimento e il mutamento, quindi la diversità delle cose e dei fenomeni, nonché tutte le differenze di tutti i tipi che sono riscontrabili tra loro. Noi dovremmo convincere Michele di questo, mentre lui, pur di tener fermo alla sua posizione è pronto a tutto, anche a sostenere che una differenza essenziale è un conto e una sostanziale un altro, e che non è detto che le due debbano necessariamente corrispondere. Egli rimane immerso nelle pastoie della verbosità filosofica, dove costringe ad immergerci anche noi altri, che non ne usciamo più fuori.
A questo punto, prima di chiudere con la Logica dell'essenza e passare ad altro, devo fare un ultimo appunto diciamo così etimologico sull'Ontologica della sostanza in generale, che comunque si collega a quanto detto finora. Ebbene il termine sostanza ha due significati diversi ma complementari. Primo come 
sostanza-sostrato, che vuol dire "ciò che sta sotto", da intendersi come la materia di cui sono fatte tutte le cose. In questo senso sostanza del tavolo è il legno, sostanza della statua il bronzo, sostanza dell'animale i tessuti, eccetera. E poi come 
sostanza-sostantivo, che vuol dire proprio soggetto logico-grammaticale della frase, nel senso di ciò che non è predicato di altro, ma a cui piuttosto ogni predicato (e aggettivo-qualità) si riferisce. Da intendersi anche come ciò che è per sé e non per altro, in vista di sé e non di altro, il fine e non il mezzo del significato logico della frase nonché di quello ontologico della realtà. Il soggetto del discorso è insomma quello il quale non si parla altro che di lui, laddove la sostanza delle cose è quella concretamente esistente, cui i nostri discorsi si riferiscono. In quest'accezione Aristotele è particolarmente chiaro: «quando qualcosa viene predicato di qualcos'altro, allora non si ha alcunché di determinato, dal momento che la caratteristica di essere alcunché di determinato appartiene solamente alle sostanze» (Metafisica, VII, 4, 1030a). Il che, tradotto nel caso di Michele, significa che se io dico "qualità", benché questa sia una delle dieci categorie logiche essenziali stabilite da Aristotele, però se come tale la dico senza riferirla-attribuirla a (o predicarla di) una qualche cosa-sostanza qualsiasi, allora non vado oltre la pura indeterminatezza logica, e la conoscenza del mondo rimane per me un puro miraggio. Appunto perché l'essenza logica concettuale ha un senso solo per il suo essere la definizione (o predicazione degli attributi categoriali) di una sostanza ontologica reale. Ma questo passo appena citato dice lascia intravedere anche altro, ossia che l'oggetto-sostanza reale di cui si parla, soggetto della definizione logica, può essere indifferentemente un uomo, un qualsiasi altro essere vivente o anche una qualsiasi cosa inanimata, purché sia appunto un «alcunché di determinato», qualcosa cioè di definito, realizzato e compiuto in sé stesso. Requisìto della sostanza è infatti di essere un corpo concreto e individuo, per cui ogni singola persona o cosa è una delle praticamente infinite sostanze esistenti. Molteplicità delle sostanze concrete particolari che contrasta con l'unicità dell'essenza astratta universale proprio come la materia fa con la forma. Per questo tra l'essenza e la sostanza corre un rapporto di predicato-soggetto, perché l'essenza è sempre e comunque di una sostanza, e precisamente è la sua definizione, che come tale non esprime quindi altro che la somma degli attributi categoriali pertinenti alla sostanza medesima. Il che alla fine ci fornisce appunto la differenza di quella sostanza rispetto alle altre. Quindi occorre tener presente, quando si parla di sostanza ad esempio dell'uomo, che tale è sia ciascun singolo individuo preso di per sé, e sia la specie umana nel suo insieme rispetto agli altri esseri esistenti. Aristotele nella sua Metafisica ha il serio problema di come la singola essenza concettuale universale si possa riferire ugualmente a ciascuna sostanza singolarmente esistente. Teme con ciò di cadere a sua volta nella tanto criticata dottrina delle "Idee"! Tuttavia, anche a soprassedere su simili questioni, credo sarebbe comunque utile per chiunque, quando parla, almeno di avere presente quella distinzione che il filosofo indica esserci, appunto tra esperienza concettuale-intellettuale ed esperienza reale-esistenziale che un uomo può fare nei confronti del mondo. Compreso quell'altro suo insegnamento, che il mondo di per sé è sempre vero, laddove casomai è la nostra conoscenza su di esso che può essere sbagliata.

2. Divisione del sapere

Da quanto detto sin qui è già emersa la prima, fondamentale distinzione che si fa in una partizione delle materie del conoscere, quella tra Logica delle essenze ed Ontologica delle sostanze delle cose esistenti. Distinzione che come ormai si sa spetta ad Aristotele, il quale per primo ci ha lasciato un'opera compiuta in modo sistematico, con tutte le materie ordinate bene in vista. Del resto l'unico che lo ha preceduto di cui conserviamo tutti gli scritti è Platone, i cui Dialoghi sono un genere ovviamente diverso, e non solo letterario, ma anche come modo diciamo così didattico di esporre agli altri le proprie cose. Ad ogni modo la sistematicità, che pure va sempre guardata con un certo sospetto, ha i suoi vantaggi, ed è utile soprattutto quando si adotta un approccio "scolastico" alle cose, nel senso che ci si rivolge a un "pubblico" che si suppone ne sappia meno di noi.

Ma, a parte simili dettagli, Aristotele stesso fa sempre lui il passo successivo nella divisione delle "scienze" filosofiche (detto con parole mie): Logica dei concetti, Ontologica della Natura, e Ontologica dell'uomo (proprio come con Hegel abbiamo: Logica, Natura e "Spirito"). Il che è confortante se non altro perché già l'antico pensatore aveva sottolineato quella differenza che esiste tra Natura animale e società umana, di cui noi stiamo tanto discutendo. Ribadisco che quello della Logica non è un "mondo", come Michele lascia intendere che sia, quanto casomai il nostro modo di conoscerlo. Tutt'al più al limite diciamo il nostro "mondo interiore" psicosentimentale, se proprio vogliamo usare quell'equivoca espressione. La Logica riguarda dunque il nostro modo di conoscere le cose, laddove l'Ontologica si riferisce alla conoscenza stessa delle cose stesse.
Quindi i "mondi", gli esseri, le sostanze oggetto di sapere sono fondamentalmente due: naturale e sociale. Io dico tre, però intendendo con ciò il "terzo mondo" universale, quello che contiene entrambi gli altri due, e non un terzo mondo "logico". Adesso qui non voglio discutere il «principio della continuità ontologica del mondo» (Michele, 5/6), che anch'io da monista ovviamente sostengo, e anzi mi sforzo di mostrare come quel princìpio sia tale nonostante le profonde differenze riscontrabili. Aggiungo anzi che la distinzione dei saperi e delle cose non lo pregiudica affatto quel princìpio, perché cercare e riconoscere la diversità serve solo a noi per i nostri scopi conoscitivi. Né differenza vuol dire "separazione" o "gerarchia" di "mondi", quanto piuttosto appunto riconoscimento dei diversi aspetti che presenta il mondo unico. Se proprio di "gerarchismo" mi si vuole accusare io non ho detto altro che l'Universo è primo e il mondo umano ultimo, però ovviamente questa è una "gerarchia" in senso storico-temporale, non valoriale. Infatti non ho mai detto, né mi sogno di farlo, che il mondo sociale è, mentre il restante mondo animale non è, perché questo è semplicemente puerile.
Ma dispute filosofiche a parte vengo al sodo con la mia partizione dei saperi e delle scienze. Ebbene, data l'impostazione aristotelica di base, ecco per quanto mi riguarda come l'ho aggiornata, specificando le varie materie possibili di indagine:
Logica dei nomi-numeri-concetti: Grammatica, Matematica e Filosofica.

Ontologica della Natura: Chimica, Fisica, Cosmologica, Geologica e Biologica.

Ontologica dell'uomo: Etica, Estetica, Economica e Politica.

Veramente questo impianto credo mi sia venuto in mente solo dopo aver scritto i miei Princìpi, in seguito alle sollecitazioni ricevute, però l'ho buttato giù proprio perché ho visto che ci si adatta perfettamente. Come tale lo presento all'attenzione, affinché sia possibilmente condiviso. È solo uno schema, certo, però è importante che su questo si sia daccordo, o sottoscrivendolo oppure proponendo delle modifiche. Perché, come ripeto, l'importanza del riuscire a distinguere i vari saperi umani sta nel fatto che così si distinguono altresì le varie cose del mondo. Quello schema dei saperi va preso come se fosse una libreria con uno scaffale per ciascuna materia, che se è vuota si sa come riempirla con ordine, mentre se è piena si sa dove trovare ciò che si cerca. Come si vede anche lo schema aggiornato, pur nella sua formalità, corrobora le due distinzioni fondamentali che già Aristotele aveva evidenziato, quella tra Logica e Ontologica, nonché nell'ambito di quest'ultima la differenza tra gli esseri naturali in generale e l'essere sociale in particolare. Ed è appunto su quest'ultima differenza in particolare che ci dobbiamo concentrare per approfondire la conoscenza, invece di stare a discutere se essa sia solo essenziale o anche sostanziale, almeno se vogliamo veramente capire le cose come stanno, invece di perderci in disquisizioni meramente linguistiche. 
Quindi proprio per approfondire ulteriormente tale differenza, alle considerazioni logiche e ontologiche svolte finora aggiungo quella relativa alla differenza gnoseologica che ci corre tra il sapere la Natura e il sapere la società. A questa riflessione mi ha indotto Mauro con il suo intervento del 5/6 scorso, il quale come ho già detto secondo me coglie alcune cose ma ne confonde altre. Egli esordisce con una distinzione dei saperi tra «scienza e filosofia», il che potrebbe al limite anche essere condivisibile, se non fosse che tanto spesso si confonde la vera scienza con la mèra filosofia. Sta di fatto che poco dopo Mauro aggiunge un ulteriore particolare: «La scienza si occupa delle cause dei fenomeni naturali e sociali». E qui egli cade rovinosamente in un vistoso equivoco filosofico, appunto perché con quell'espressione denota di non riconoscerla nemmeno, quella distinzione tra Natura e società su cui stiamo litigando tutti quanti. Egli parla infatti di fatti «naturali e sociali» come se fossero la stessa cosa, o quantomeno lascia intendere che ci sia una stessa unica "scienza" indifferente alla diversità dei propri oggetti. E sì che appunto già Aristotele aveva distinto tra una filosofia teoretica della Natura e una filosofia pratica dell'uomo. Ma la cosa sconcertante è che sempre Mauro in quella stessa occasione coglie nel segno ancora più di Aristotele, laddove dice, praticamente al contrario di prima, che «la scienza ci spiega perché cade la mela ma non può indicarci il telos, la finalità delle azioni umane». 
La stessa ambivalenza l'avevo riscontrata anche in un suo messaggio precedente, come ho già detto, in cui egli poneva il seguente quesito: «Esiste un'oggettività scientifica nell'analisi dei rapporti sociali?» (Mauro, 17/5). Egli che poneva la domanda non era ovviamente tenuto anche a rispondere, però da quello che dice traspare che la sua risposta altalena tra sì e no. Ebbene, io invece dico francamente no, non esiste una cosa simile, un'«oggettività scientifica» nella conoscenza dei rapporti umani. Simile tipo di sapere, invece, noi ce l'abbiamo piuttosto nella conoscenza della Natura. Ma questo non vuol dire affatto che certe cose come i fatti sociali non si possano oggettivamente conoscere, che non ci sia cioè una verità da sapere anche intorno al mondo umano. Tale verità esiste eccome, solo che non è appunto di tipo "scientifico", bensì storico. Né può essere altrimenti, perché una volta riconosciuto che la Natura animale e l'uomo civile sono oggetti di studio differenti, allora per forza devono essere tali anche i loro rispettivi saperi. Per questo, come si evince dallo schema di poco fa e come aveva suggerito già Aristotele, è il caso di distinguere tra Scienze della Natura minerale-vegetale-animale da una parte, e Storia civile-culturale-sociale degli uomini dall'altra. Ed è proprio in questo senso che deve intendersi anche la doppia faccia con cui il Materialismo si presenta, appunto quale conoscenza scientifica della Natura e conoscenza storica dell'uomo. Il che, di nuovo, non significa ovviamente che un sapere vale o è vero più dell'altro, ma solo che, essendo differenti gli oggetti di cui si tratta, allora è diverso anche il tipo di conoscenza che abbiamo su di essi. 
E allora, mentre io pongo questa differenza logica-ontologica-gnoseologica tra Scienze del mondo naturale e Storia del mondo umano, sulla cui base indirizzo la mia ricerca per approfondirne il significato, Michele invece, che pure implicitamente quella differenza la riconosce, pone però il "problema" di come sia stato possibile che abbia potuto verificarsi, quella differenza, finendo per negarla perché "inspiegabile e irrazionale". Mentre in verità è il suo ragionamento a esser tale, perché infatti con simile impostazione "problematica" egli non ci dice un bel niente, né sulle Scienze naturali, né sulla Storia umana. Dice solo: ah, ma non c'è alcuna differenza, tutto è "natura", anche la società! Con ciò poi chiama "Rivoluzione" tutte le tappe fondamentali dell'Evoluzione, come se questa non fosse una serie di mutamenti che hanno richiesto milioni e anche miliardi di anni, secondo il solito passo lento della Natura; laddove una Rivoluzione è in realtà un fatto sociale esclusivo dell'uomo cosciente e conoscente nella Storia, nonché un "salto" repentino che da un momento all'altro cambia per sempre le cose tra un prima e il dopo. Per Michele invece il mondo, la vita, l'uomo, la sua Evoluzione biologica naturale, la Rivoluzione agricola sociale e tutto ciò che ne è seguito con la civilizzazione storica, non sono oggetto di studio e di un sapere specifico, bensì pretesti su cui imbandire delle speculazioni filosofiche. Peccato che si riducano spesso a dispute vuote, futili ed estenuanti.
Ma bando alle polemiche filosofiche. Piuttosto voglio approfondire un attimo la felice uscita di Mauro sulla finalità dell'agire umano, con cui ha colto in pieno nel segno. A parte che anche questo è un concetto centrale del benemerito Aristotele, per quanto confuso tra Metafisica, Etica e Politica. Tuttavia per noi oggi, o almeno per chi fa della filosofia del lavoro, quel particolare vale assai di più. Come ho già detto altrove, in effetti la Natura non pone né persegue scopi di alcun genere, perché per certe cose ci vuole l'intelletto e la volontà, di cui solo l'uomo dispone. Per chi ci crede anche Dio e tutti i "Santi", ma lasciamo stare. Diciamo che tra noi, gli altri animali, e finanche l'intero Universo, solamente la nostra specie ha a che fare con  il fine di alcunché. Qui sta ancora la differenza tra l'ape e l'architetto, che l'insetto realizza la sua opera perfetta istintivamente, senza pensarci; certo, il suo "fine" è costruire il nido, ma in realtà seguire l'istinto è ben diverso dal perseguire uno scopo. L'uomo invece nel suo agire non fa altro che porre finalità; qualunque comportamento tenga, qualsiasi cosa faccia, egli è lì che prevede, progetta, persegue e realizza i suoi scopi. Per l'ennesima volta anche simile differenza tra un comportamento istintivo e inconsapevole della Natura e l'agire premeditato e cosciente degli uomini non è una rigida dicotomia o "gerarchia" tra "regni" diversi, perché se è per questo anche la razionalità umana poggia su una base istintuale e inconscia ben più ampia della razionalità stessa. La stessa corteccia che ci caratterizza è la parte più esterna del cervello, il che mostra chiaramente come si sia sviluppata da un cervello animale precedente. Per cui di nuovo i due "mondi" (naturale e sociale), oggetti dei due rispettivi saperi (scientifico e storico), sono distinti e distinguibili, ma non  scissi e separati. Essi sono anzi più che complementari, appunto perché l'uno deriva dall'altro e poggia su di esso, ma poi anche perché è facile vedere come anche tutte le attività pratiche degli uomini (oltre la loro sostanza biologica) sono comunque sempre correlate ad uno stretto legame con la Natura: esiste infatti una forma di rispetto etico nei suoi confronti, il dominio politico del suo territorio, lo sfruttamento economico delle sue risorse, nonché la contemplazione estetica della sua bellezza. Infine anche la Natura, oggetto prepicuo della Scienza, ha evidentemente la sua storia; così come anche l'uomo, oggetto prepicuo della Storia, è altresì un oggetto scientificamente conosciuto attraverso la Medicina (la quale essendo però un ramo della Biologia rientra appunto nell'ambito delle Scienze naturali). Ma sopratutto è l'uomo stesso un essere al tempo stesso animale-istintuale-naturale e civile-culturale-sociale; o meglio ancora, è lui il solo ad essere entrambe queste cose, e ad esserlo in tutti i sensi possibili.
Con tutto ciò voglio insomma dire che materie quali la Politica, l'Arte, il Diritto, l'Economia, oppure più in generale ancora la società o la psiche umana, sono sì oggetti di conoscenza, ma certamente non "scientifica" nel senso stretto del termine, appunto perché quella dell'uomo è una verità essenzialmente e sostanzialmente storica. E anzi una peculiarità del Materialismo è appunto quella di sottolineare e proclamare a gran voce l'estrema importanza di questo tipo di sapere accanto e insieme a quello scientifico. Veramente meglio ancora dopo, perché non si può capire appropriatamente l'uomo e ciò che lo riguarda se non si ha prima un'almeno qualche cognizione del mondo naturale. Aristotele invece, che pure ha visto e indicato la differenza che distingue gli uomini dal restante mondo naturale, però a proposito di cosa ci si può aspettare dalla conoscenza delle faccende pratiche che riguardano la loro vita esprime un giudizio piuttosto riduttivo: «Ci si deve accontentare (...) in queste cose (...) di una verità sommaria e approssimativa» (Etica, I, 3, 1094b). Ma questo perché egli evidentemente non aveva la minima idea dell'importanza del sapere storico come lo intendiamo noi oggi, né tantomeno della filosofia del lavoro che gli fa da filo conduttore.
E qui non mi riferisco tanto all'esattezza matematica che distingue il sapere scientifico rispetto alle cosiddette "scienze" umane, bensì al fatto che ci si riferisce appunto a tipi di oggetti e fenomeni differenti. Non a caso le leggi della Natura sono quelle una volta per tutte, laddove le leggi degli uomini sono in continua trasformazione. E questo fa sì che mentre la conoscenza dei fatti naturali ci permette di prevedere e, date determinate condizioni, anche prestabilire cosa accadrà in futuro; invece la conoscenza dei fatti sociali questa predizione non ce la consente, per cui non  ci è dato di sapere in anticipo come sarà la società di domani, ma solo com'è stata in passato e al limite com'è oggi. Per rendersi conto della differenza si pensi che la Fisica quantistica ha rivoluzionato la Fisica classica, ma non l'ha soppiantata, in quanto la newtoniana legge di gravitazione universale è tuttora valida, e anzi supportata proprio dalla nuova formulazione matematica che ne ha dato Einstein. Laddove la Rivoluzione liberale francese ha invece tolto di mezzo una volta per tutte il sistema sociale vigente nel millenario feudalesimo medievale di quel popolo. Appunto a conferma del passo costante (e lento) tenuto dalla Natura in confronto ai salti dirompenti che ogni tanto compie la società umana (comunque di per sé sempre più veloce).
Per questi stessi motivi io dico anche che un'espressione tipo "Socialismo scientifico" è fuorviante, esattamente come lo è la pretesa di una «teoria scientifica del moderno capitalismo», come dice Mauro (5/5). Lo so che su questo punto gli ammiratori di Marx mi salteranno addosso, ma io lo ribadisco perché ritengo che il Socialismo e il Capitalismo sono appunto fenomeni-fatti sociali, non naturali, "oggetti" il cui sapere è quindi di tipo storico, e non "scientifico". Il che ovviamente non toglie una virgola alla sacrosanta verità proclamata da Marx, il cui nucleo è validissimo ancora oggi e lo sarà finché continuerà a vigere questo sistema di organizzazione della produzione umana che lui ha descritto e nel quale stiamo ancora oggi. Il grande pensatore non ci ha infatti insegnato cosa sia il "Comunismo", a parte qualche felice battuta, bensì che cos'è il Capitalismo e qual'è il princìpio del suo funzionamento. Solo che tutto ciò è un sapere storico-sociale. Ma che cos'è lo stesso Il Capitale, se non un grandioso affresco storico dello sviluppo e diciamo così progresso economico e civile dell'umanità? Egli parte dalla "merce", dite voi. Veramente no, egli parte dal baratto, la forma primitiva di scambio, quindi spiega come nessun altro l'avvento e l'introduzione della moneta (seguendo anche su questo la pregevole lezione di Aristotele), per arrivare a svelare l'uso capitale del denaro in voga ai suoi tempi esattamente come lo è adesso. Ecco che cos'è secondo me Materialismo storico, ciò che dobbiamo imparare, sapere e divulgare di Marx, nonché dell'importanza della conoscenza storica in generale, visto che è lì che si trova la verità dell'uomo. Laddove il Materialismo scientifico guarda alla conoscenza del mondo naturale, ma non così,  bensì proprio nel senso che è la stessa filosofia del lavoro a parlare di un sapere-fare dell'uomo, da intendersi appunto come un sapere la Natura, prima di poterla piegare agli scopi umani nel loro fare le cose.
Questo discorso evoca anche l'analisi critica che Popper rivolge allo "storicismo", la quale penso debba farci da lezione in questo senso. Costui ne La società aperta e i suoi nemici denuncia la confusione che Marx fa tra «predizione scientifica» e «profezia storica», e ha ragione. Ma soprattutto nei confronti di quei marxisti che ancora oggi cadono in simile equivoco. Popper nega giustamente ogni pretesa di rivolgere la conoscenza storica al futuro, che in effetti è un controsenso proprio terminologico prima ancora che concettuale. Perché in effetti nessuno può prevedere il futuro della società, ma casomai quello della Natura, come ho detto sopra, nella misura in cui la conosciamo e riusciamo ad imbrigliarla al nostro volere produttivo. Invece con gli uomini è diverso, non si può prevedere cosa faranno in futuro, e nemmeno un calibro come Marx poteva farlo, per cui non è un caso che nella misura in cui lo ha fatto ha sbagliato, cioè non ha indovinato. In Russia è successo che la "dittatura (espressione comunque orribile) del proletariato" si è tradotta in quella di un solo uomo Capo-Duce di ogni cosa. Chissà come avrebbe reagito Marx alla vista di un simile spettacolo "rivoluzionario". Sapete cosa penso che avrebbe fatto? Avrebbe esultato alla caduta del Muro! Poi certo, tutto questo non toglie come la critica dell'illustre epistemologo austro-americano sia fin troppo facile e comoda, nella misura in cui è rivolta unicamente alla fallacia della "profezia" storica di Marx, mentre trascura del tutto la verità storica diciamo pure immortale della sua opera, quello che io intendo per Materialismo storico, implicazioni filosofiche e sociali comprese. Popper invece si è comportato con Marx proprio come Platone con i Sofisti: una critica giusta ma assolutamente unilaterale, che disconosce del tutto o travìsa i reali e rilevanti meriti dei soggetti sottoposti a critica, il che alla fine rasenta la calunnia. Personalmente condivido d'altra parte anche l'interpretazione critica che Popper dà di Platone, Aristotele e Hegel, puntuale e senza mezzi termini. Noto infine che egli stesso cade però in contraddizione nel momento in cui parla diffusamente di «ingegneria sociale», con la pretesa di spacciare appunto per "scientifica" la concezione liberaldemocratica della società che egli difende a spada tratta. 
 Sulla base di questa impostazione storica ma non storicista, di questa distinzione tra effettiva visione del passato fino a oggi e supposta previsione del futuro delle faccende umane, che spero di aver chiarito, si vede come la distinzione che fa Mauro tra «scienza e filosofia» sia piuttosto problematica, appunto perché trascura del tutto la Storia (e anche l'Economica che non cita, se è per questo). Ne consegue che primo la sua sembra più una scissione che altro; e poi che, avendo attribuito i fenomeni sociali alla competenza della "scienza", alla filosofia resta ben poco da fare, se non "sconfinare" qua e là tra una materia e l'altra. Ambiguità che si regge appunto sul presupposto che Natura e società siano oggetti indifferenti di una medesima "scienza" indifferente, quando invece l'unione tra le due "cose" si basa proprio sulla loro differenza essenziale, sostanziale e dialettica. Dal mio schema sulla divisione dei saperi si vede invece che la filosofia come materia a sé stante non c'è, se non per quanto riguarda la Logica dei concetti. Io infatti, sulla scorta di Aristotele ma con parole mie dico appunto: Scienze naturali del mondo e Storia sociale dell'uomo. Laddove considero filosofico piuttosto l'intendere le due cose insieme nella loro differenza. Mentre ad esempio il fisico non sa un bel niente di Biologia, oppure di Politica, e viceversa il politico non ha idea di scienze naturali o di arte, al filosofo spetta al contrario il compito di avere presente una visione d'insieme unitaria, del mondo come dei saperi su di esso. Ovviamente questo non vuol dire che il filosofo deve sapere "tutto", ma che abbia una concezione dialettica, nel senso proprio logico del termine, questo sì. O almeno come l'intendo io di uno che cerca le differenze tra le cose, e che quando le trova non le considera però come una rigida separazione, bensì cerca di vederle e mostrarle nella loro "unione-distinzione" reciproca. E  tutto questo costituisce ancora il punto di partenza della filosofia, il suo "cominciamento" come avrebbe detto Hegel! E allora per "concludere l'inizio" chiedo, se la validità della distinzione tra Natura e società, come quell'altra tra Materialismo scientifico e storico, è verificabile da tutti i punti di vista possibili, per quale motivo alla fine non dovrei ammettere anche una differenza ontologica tra questi due "mondi", oppure più in particolare tra l'uomo e gli altri animali, pur mantenendo fermo il princìpio monista? Perché lo esige Michele? Se è per questo allora credo di aver mostrato abbastanza l'insostenibilità logica della sua posizione. La cui confusione a proposito di quanto ho appena detto si evince dall'espressione «sistema scientifico-filosofico-politico», che egli usa nella III Ipotesi come un condensato della sua proposta di Manifesto. Dove guarda caso manca ogni riferimento a ciò che ha più importanza per noi, la Storia economica e sociale dell'uomo.



3. Homo Faber

Michele sostiene che «l'uomo e l'animale (...) non sono ontologicamente separati» (31/5, corsivo mio), ed è vero. Ma ontologicamente differenti sì però, lo sono eccome, come mi propongo di mostrare ora con la definizione logica dell'essenza di uomo. Veramente, da come li usa lui, i termini differenza e separazione sembrano sinonimi, mentre io qui cerco appunto di distinguerli. O meglio, mentre egli adopera indifferentemente l'uno e l'altro, io parlo sempre e solo di differenze. Ovviamente all'interno di una visione monista che io ho appunto espresso come «un insieme di insiemi». Laddove Michele, con il suo insistere sulla radicale "distinzione" tra differenze logiche e ontologiche delle cose, finisce per confondere le differenze tra le cose stesse, scambiando il loro riconoscimento per una presunta "scissione" in "regni" separati di tutte le cose. Il che frana non appena io dico qui che ad una differenza essenziale della definizione logica, qualora sia vera, corrisponde una differenza sostanziale della cosa definita, senza di che l'essenza non ha alcun senso.
Riepilogate le formalità logiche veniamo al sodo del metodo dialettico della definizione, la quale procede attraverso una successione di divisioni per due dei concetti presi in esame. La cui paternità come ho detto spetta a Platone, il quale però ha poco più che accennato la cosa. Costui era infatti molto più preso dalla presunta "scienza" dialettica delle sue "Idee", che non dall'uso di un effettivo metodo logico per definire le cose. Tuttavia egli, sebbene solo di sfuggita, ha detto l'essenziale, e Aristotele non ha fatto altro che prendere di peso ma ampliare e dare una sistemazione all'intuizione del suo Maestro. Come ho già osservato altrove, Platone raccomanda che la divisione logica non vada fatta a caso, bensì appunto con metodo, come farebbe un macellaio provetto nel sezionare un animale. E qual'è insomma l'accortezza da usare, che una delle due parti ottenute dalla divisione presenti una propria caratteristica esclusiva, e quindi assente nell'altra, carattere che quindi come tale fa la differenza tra le due parti.
Per esempio, parto dal concetto generico di corpo, che comprende l'insieme di tutti i corpi esistenti, e lo divido per due in: corpi inerti e corpi viventi. Sicuramente anche qui c'è un po' di teoria degli insiemi. Comunque sia, si vede come dividendo il concetto-insieme di partenza ottengo due concetti-insiemi, tali per cui tutti i corpi esistenti entrano a far parte o dell'uno oppure dell'altro dei due insiemi. Il che denota appunto una differenza essenziale e sostanziale tra i due tipi di corpi evidenziati dalla divisione, appunto minerali inanimati da una parte e organismi vegetali-animali dall'altra. Sicché la divisione concettuale evidenzia qualcosa, in questo caso la vita, che segna la differenza di tutti i corpi tra quelli che sono e quelli che invece non sono in vita. Ed è proprio in questo senso che Platone raccomanda come la divisione sia appunto netta, per così dire secondo natura, senza lacerazioni o forzature arbitrarie; senza insomma che ti resti in mano qualche elemento di partenza che non si capisce di quale dei due insiemi ottenuti dalla divisione debba far parte. Il che naturalmente, come tra Universo minerale e Natura vivente, vale altrettanto tra Natura e società, tra gli altri animali e l'uomo, tra il cieco istinto e l'agire consapevole eccetera. Ma di questo tra poco.
Finora il ragionamento ci ha praticamente condotto ad un'alternativa dei corpi tra essere o non essere viventi, questa è la differenza essenziale rivelata dalla divisione concettuale tra le due parti risultate. La vita è una qualità esclusiva dell'una, quindi tale da escludere l'altra. Meglio ancora, all'essere dell'una corrisponde il non essere dell'altra, ma anche viceversa. Infatti come un corpo minerale non è vivente, così anche un corpo vegetale o animale non è minerale. Ma forse che questo significa il Non essere come "Nulla"? Certo che no, bensì appunto un non essere come diverso, e però di una differenza sostanziale nel pieno senso della parola. Un sasso è fatto di atomi e molecole, mentre un fiore o un insetto sono fatti di cellule. Più ontologica di questa differenza materiale mi pare che proprio non esista. E il riconoscerla non pregiudica affatto il princìpio dell'unicità del mondo, né dà adito al nichilismo paventato da Michele, perché è del tutto evidente come i fiori e i sassi per così dire convivano pacificamente insieme nell'unico mondo esistente.
Tutto ciò contrasta dunque con quanto ripete Michele, che «le differenze ontologiche sono fra due oggetti che non hanno nulla in comune» (5/6). Infatti se è così allora non esiste alcuna differenza ontologica tra alcun oggetto, ma solo quella tra il generico essere esistente e il generico "nulla" non esistente. O meglio, in effetti un fiore non ha «nulla in comune» con un sasso, se non il fatto di essere-esistere. Eppure a guardar meglio qualcosa ce l'hanno eccome. Infatti anche le cellule costituenti il fiore sono a loro volta fatte di atomi e molecole di cui è fatto anche il sasso, se è per questo, solo che questa materia atomica di base comune è organizzata nei corpi viventi come materia cellulare in una struttura appunto inedita e straordinariamente più complicata. Se poi andiamo a guardare alle origini della vita allora il legame tra il fiore e il sasso si fa assai più stretto ancora. Osserviamo infatti che la stessa materia vivente ha avuto origine da un'evoluzione chimica della materia inerte preesistente, resa possibile dalle esclusive condizioni ambientali del Pianeta di allora. Ciò che è impossibile oggi, che da un sasso nasca un fiore, è invece proprio ciò che in senso figurato è successo alla comparsa della vita. Inoltre, come ho detto, non è che la vita sia comparsa d'un botto, quando invece in Natura ogni cosa richiede tempi assai lunghi. Prima della vita si sono dovute verificare le condizioni per la formazione delle molecole complesse del Carbonio, - composti come gli Zuccheri, le Proteine, i Grassi, gli Amminoacidi eccetera, oggetto di studio specifico della Chimica organica. E questo è potuto accadere appunto attraverso un'evoluzione chimica della materia ancora inerte, prima con la formazione di quelle macromolecole organiche, e solo poi con il loro "assemblaggio" simbiotico nelle primitive cellule, i primi esseri viventi veri e propri. Dai quali finalmente a quel punto avrebbe preso il via l'evoluzione biologica della materia organica dei corpi vegetali e animali. E tutto questo dimostra che non c'è strappo, scissione o separazione, ma al contrario una straordinaria "continuità ontologica" della materia. Solo che questo non può però voler dire, come pretende Michele, riconoscere la differenza essenziale tra corpi inerti e viventi, che in quanto logica esiste in realtà solo dentro la nostra testa, e negare al tempo stesso la realtà sostanziale di quella differenza anche oggettivamente fuori di noi. A me pare di aver mostrato a sufficienza come si possano affermare entrambe le cose, e anzi quanto sarebbe illogico non farlo.
Infine, anche sulla metafisica del non essere come "nulla", mi sembra che né Michele (che pure evoca Epicuro) né Moreno con quello che dice, abbiano capito la grande e neanche l'unica lezione fisica del Materialimo antico. Il quale insegna appunto che l'essere è il "pieno" materiale delle cose, laddove il non essere è il "vuoto" spaziale entro il quale esse si muovono. Questo è il significato fisico autentico del vuoto, un non essere come non pieno; che si aggiunge così a quello logico-dialettico di differenza, o sia di un non essere come non uguale; al quale infine può altresì aggiungersi quello matematico di insieme vuoto per indicare il numero Zero, il non essere come non quantità. Laddove il significato filosofico metafisico di "nulla" nel senso del "non essere come non esistente", che pur così inutile viene tanto discusso dai Parmenide agli Hegel, fino ai Michele e Moreno, io proprio non lo concepisco né digerisco.

E veniamo finalmente alla definizione metodica dell'essenza logica corrispondente alla sostanza ontologica di uomo. Ebbene ripeto che il procedimento consiste nel partire da un concetto più generale che contenga quello particolare cercato. Sulla base di quanto detto finora potrei benissimo ripartire di nuovo dal concetto di "corpo" in generale, e ripetere il percorso già compiuto con quello. Infatti questo è proprio quello che farò, solo che questa volta parto dal concetto più generico possibile di "essere", senz'altra determinazione. Il che, preso così, significa comprendere tutti gli esseri esistenti al mondo, per cui è evidente la sinonimia concettuale tra essere e corpo. E in effetti anche in questo caso la prima divisione che faccio è quella tra essere inerte ed essere vivente. A questo punto che succede, che proseguendo con il procedimento scarto una delle due parti ottenute, l'essere inerte, perché non contiene quello che cerco, l'uomo; mentre l'essere vivente che trattengo lo sottopongo a sua volta alla divisione per due: vegetale e animale. Ancora una volta è facile verificare come tutti gli esseri viventi rientrino o nell'una o nell'altra delle due parti. Quindi, continuando nello stesso modo, escludo il vegetale, mi tengo l'essere animale e lo divido a sua volta in acquatico e terrestre. Quindi divido l'essere animale terrestre in rettile e mammifero, il quale ultimo è divisibile a sua volta in marsupiale e placentato, il quale ultimo si divide finalmente in quadrupede e bipede. Da cui infine, raccogliendo tutti i dati ottenuti, risulta la definizione cercata di uomo: essere vivente, animale terrestre, mammifero placentato e bipede
È ovvio che potremmo ugualmente dire uomo: essere non inerte, non vegetale, non acquatico, non rettile, non marsupiale e non quadrupede. Il che denota un'altra volta come al limite l'essere definito coincide con un non essere altrettanto definito, perché ogni volta che lo definisci, l'essere, lo fai sempre in rapporto a una sua differenza da altro. Il metodo poi non è unilaterale, bensì per così dire di andata e ritorno, oppure di discesa e salita. Infatti come dal concetto più universale di essere si scende a quello più particolare di uomo attraverso la divisione analitica, così all'inverso dai particolari della definizione di uomo si sale all'universale essere indeterminato attraverso il metodo dell'unificazione sintetica.
Ora, osservando meglio la definizione di uomo ottenuta sopra, nonostante le divisioni precise operate e gli scarti effettuati, pure i caratteri dell'essere umano individuati, tranne l'ultimo, non sono esclusivi dell'uomo; anche un cane o un bue e molti altri ancora sono esseri animali, mammiferi terrestri e placentati come l'uomo. Laddove solo il bipedismo è un carattere unico, essendo che in effetti i piedi, presupposto e conseguenza della stazione eretta, sono una peculiarità esclusiva della nostra specie, solo noi ce li abbiamo. Ebbene lo straordinario e per certi aspetti incredibile progresso logico fatto da Aristotele nei confronti di Platone sta tutto qui, sia per quanto riguarda la sistematizzazione logica della definizione in generale, che per quanto riguarda la definizione dell'essenza di uomo in particolare. Il filosofo evidentemente non ha proceduto come ho appena fatto io, che ho seguito formalmente le istruzioni di Platone per dare la mia definizione di uomo. Eppure proprio lui a un certo punto della Metafisica, e per la prima volta a quanto mi risulta, se ne esce con la seguente definizione di uomo: «animale bipede». Egli lo fa fuggevolmente, tanto per dare un esempio mentre sta parlando della definizione logica e del metodo platonico della divisione in generale. Tuttavia si vede subito come nel suo caso egli abbia per così dire tagliato corto. O meglio, dei sei caratteri individuati dalla definizione ottenuta con il metodo platonico, Aristotele ne mantiene solo due, che quindi perlomeno erano già compresi nella prima. Egli quindi praticamente abbrevia la definizione, la riduce all'osso, ma non senza motivo, perché quel che resta è altresì il nocciolo essenziale della cosa. Infatti in questo modo Aristotele toglie di mezzo tutti quei caratteri che sono sì propri degli uomini, ma anche di molti altri animali. E anzi "animale" è proprio l'altro termine che insieme a "bipede" costituisce la sua definizione dell'essenza di uomo. Ora, ripeto come quest'espressione così straordinariamente esatta Aristotele quasi la butta là, a mo' d'esempio mentre sta parlando della definizione in generale. Ma eccola nel contesto della frase da cui è tratta, che rivela anche il "segreto" dell'innovazione logica fornita dal filosofo:

«E in generale, (...) se i termini [della definizione] sono due, l'uno è la differenza e l'altro il genere: così, nell'esempio di animale bipede [corsivo mio], l'animale è il genere, e bipede è la differenza. (...) allora è chiaro che la definizione è la nozione costituita dalle differenze» (Metafisica, VII, 12, 1038a).

È evidente che il filosofo ha semplificato ma non escluso, né sostanzialmente modificato il metodo di Platone. Egli piuttosto ha giusto notato come fosse la «differenza ultima» (Ibid) ottenuta dal processo divisorio, nel nostro caso il bipedismo, la vera e unica differenza essenziale che passa tra l'uomo e gli altri animali. Per cui la definizione breve di Aristotele, rispetto alla mia che ho ottenuto seguendo Platone, rappresenta un autentico progresso logico. Non a caso essa è altresì la versione rigorosamente scientifica della definizione, applicata da Linneo nel Settecento, e proprio così com'è, nella sua classificazione universale degli organismi, ciascuno dei quali indicato appunto da un nome doppio. Ora è chiaro infatti come in generale la definizione rigorosa richieda due ingredienti fondamentali, o per così dire una sola divisione-unione essenziale, quella tra «il genere» e «la differenza» (o specie), che nel caso di "animale bipede" vuol dire appunto genere animale e differenza bipede dell'uomo. Il genere è ciò che l'uomo ha in comune con gli altri esseri viventi, la sua animalità appunto, e per questo si dice "genere prossimo"; laddove il bipedismo è la sua specialità esclusiva, la sua "differenza specifica", quella che appunto per questo lo distingue come una specie unica tra tutte le altre. 
Ma Aristotele, che pure con quella breve espressione di "animale bipede" dà una definizione rigorosamente logica e incredibilmente vera dell'essenza di uomo, poi dimostra di non essere consapevole della grande portata di quanto ha detto. Subito dopo quel passo infatti egli si perde per strada considerando anche i palmipedi animali "bipedi", che si distinguerebbero dagli uomini per i loro «piedi non divisi in dita»! Segno evidente di come, sebbene egli avesse azzeccato così in pieno la definizione di uomo, pure non fosse cosciente del suo profondo significato. Non si era reso conto che i piedi rappresentano una "differenza ultima", tra l'uomo e gli altri animali, e volendo continuare la divisione è scivolato in un controsenso. Appunto perché non aveva capito l'importanza decisiva di questo particolare, di quanto il bipedismo sia il risultato della nostra evoluzione dai Quadrumani, del nostro essere scesi giù dagli alberi e alzati appunto in piedi per dare inizio all'avvventura umana. Il che d'altra parte è del tutto ovvio che il grande filosofo non avesse la benché minima idea di certe cose, e anzi sarebbe assurdo pretenderlo. Questo però non fa altro che aumentare lo stupore di una simile sconcertante intuizione, che insieme alla Logica in generale dev'essere attribuito a grande merito dell'antico filosofo.

Se dunque sulla scorta di Aristotele diciamo "animale bipede", allora ancora oggi abbiamo la corretta ed esatta definizione dell'essenza di uomo, con gli ingredienti logici giusti al posto giusto, come appena visto. Ma questa non è però evidentemente la sola definizione essenziale possibile che si possa dare di questo essere. Anzi, con ciò siamo ancora su di un piano biologico naturale, dove la specificità umana consiste in un particolare fisiologico del corpo: i piedi. Peraltro uno tra i tanti di questo tipo che abbiamo. Ma Aristotele stesso ha fornito anche altre definizioni altrettanto valide, come "animale razionale", "animale parlante" o anche "animale politico", tutte ugualmente corrette per gli stessi motivi della prima. Il grande filosofo ha infatti tralasciato giusto la più importante di tutte, che evidentemente lui non poteva riconoscere, quella definizione dell'essenza umana che aggiungiamo noi oggi sulla scia dell'insegnamento di Marx, secondo la quale l'uomo è l'animale che lavora!

«Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza» (Ideologia tedesca).
  
Ecco, come volevasi dimostrare! E questa particolare essenza umana che noi proclamiamo per ultima in ordine di tempo, diciamo però che è prima nella sostanza. Nel senso che tra tutte le differenze essenziali che si possono riscontrare tra gli uomini e gli altri animali, il lavoro è appunto la differenza più principale e fondamentale di tutte. Infatti, se noi consideriamo i piedi, le mani, il linguaggio, lo stesso cervello e la ragione, vediamo che tutte queste "qualità" umane hanno preceduto, proprio nel senso che hanno anticipato nel tempo l'avvento del lavoro, e infatti conducono tutte quante insieme ad esso. Laddove tutte le specificità umane che seguono la "svolta", - la scienza, la filosofia, la politica, l'economia, l'etica, l'arte, la religione e quant'altro - si erigono e reggono su di esso. Per questo io, usando il linguaggio di Aristotele, posso dire logicamente e serenamente che il lavoro è prima di tutto il resto ciò che non si predica di altro se non dell'uomo
Nella "accusa" che gli ho rivolto ho già attribuito a Michele il merito di aver riconosciuto come il lavoro sia «la qualità fondamentale del genere umano, (...) la sua essenza» (26/5). Ora però, dopo tutto ciò lo esorto ad essere appena un po' più preciso, perché in realtà dimostra con simile espressione di non avere le idee chiare sull'essenza, la sua definizione logica e quant'altro ho detto fin qui. Egli dice «genere umano», laddove ho appeno mostrato che casomai è della specie umana che si tratta, ossia della differenza specifica che distingue l'uomo rispetto al rimanente genere animale di cui pure egli è parte. Chiudo rispondendo a un quesito da lui rivoltomi, che mi pare che calzi: «Per dire che l'uomo è ontologicamente diverso dall'animale mi devi dimostrare che l'uomo sta all'animale come l'essere sta al non-essere» (2/6). Ecco, come l'essere lavoratore dell'uomo sta al non essere lavoratori degli altri animali! Gli basterà? Tuttavia gli chiedo lo stesso a mia volta se per lui questa rappresenta una differenza soltanto logica oppure non anche ontologica, ovvero se per lui il lavoro è solo un'essenza-«qualità» concettuale o non anche la sostanza-«qualità» reale della nostra specie. E infine se sul serio pensa che riconoscere ciò vorrebbe dire annichilire il mondo naturale. Ebbene se è così sbaglia, perché al contrario la filosofia del lavoro rivela proprio qual'è  l'autentico rapporto teoretico e pratico che l'uomo attraverso tale attività intrattiene con la Natura, prima che con tutte le altre azioni che compie. Nonché i rapporti con i suoi simili ovviamente, perché è il lavoro che presenta altresì entrambi i risvolti, economico e sociale, del mondo umano. Altro che la «Politica» nel senso in cui la intende Michele ma anche gli altri. Poi certo, tutto dipende da come la produzione-distribuzione-consumo dei beni sia socialmente (o privatamente) organizzata, quali sono i mezzi che gli uomini usano, se anche sé stessi, e quali i fini che perseguono con la loro attività, se solo il denaro. Il lavoro può funzionare in tanti modo diversi, come insegna la Storia, ma non è che per questo cambia il princìpio filosofico del connubio tra il sapere scientifico naturale e il fare storico sociale degli uomini. Prima dobbiamo sapere che cos'è, il lavoro, poi com'è, e infine come lo si vorrebbe-potrebbe-dovrebbe fare in modo diverso, possibilmente più umano di così.



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